Mi capita spesso, negli ultimi tempi, di svegliarmi la mattina provando una forte nostalgia di Funchal. Delle crepe sulla parete della mia stanza a due passi dal mare. Dei giorni trascorsi perdendomi nei vicoli della città vecchia. Della vegetazione rigogliosa dell’isola. Degli anziani che mi raccontano con accento inglese delle gesta del Nacional de Madeira. Dei ragazzini che giocano a calcio nei campi improvvisati tra le case coloniali.
Partendo da questa nostalgia, da questa Fernweh, che, tante mattine, mi spinge a non alzarmi dal letto, ho invitato gli autori di questo libro – tra cui me stesso – a ripercorrere, senza avere paura del dolore che genera l’incontro con la perdita, le tracce d’acquarello lasciate dai ricordi di un’esperienza vissuta in un paese europeo.
Come fil rouge, però, non ho chiesto agli autori di condividere una forma, né di rispettare i confini tra diaristica e finzione, ma ho soltanto suggerito una prospettiva, quella di filtrare tra i propri ricordi solo quelli intrisi di calcio, sul presupposto che il calcio non è un aspetto isolato della vita, ma la vita stessa, osservata da una posizione privilegiata.
Ecco allora che, nelle pagine che seguono, il pallone rotola su volti evaporati, luoghi difficili da pronunciare, incontri consumati, seguendo cammini reali e letterari nei quali non conta la meta, ma solo quello che si vede durante il tragitto: bistrot di periferia, gonne color pastello, spogliatoi per bambini, piazze innevate, friggitorie, toppe sulle giacche jeans, argentini che non passano mai il pallone, musei degli arazzi, copriscarpe in polietilene, cappellini da baseball.
Ogni viaggio ci lascia una storia, figuriamoci i paesi in cui abbiamo abitato. Eppure, a guardar bene, dire di aver abitato in un paese straniero è solo un’illusione. I paesi stranieri non si lasciano abitare. I paesi stranieri, passati al setaccio dei ricordi, sono solo un inventario sconnesso di nomi segnati a penna su un tovagliolo, facce incrociate sul metrò, storie ascoltate al bancone del pub, insegne luminose, strade notturne, parchi silenziosi. I paesi stranieri sono luci di flash che svaniscono all’istante, polaroid sbiadite, occasioni mancate per un soffio, pali-gol. Tra noi e loro c’è una distanza che non potremo mai colmare, e non importa quanti giorni, quanti mesi, quanti anni ci hanno ospitato. Questa distanza è la nostalgia non per quello che abbiamo vissuto, ma per quello che non abbiamo vissuto.
La nostalgia del futuro.
Altra cosa è dire che da ogni paese straniero si riportano a casa due cose: vestiti sporchi e regali. Passati gli anni, lavati i vestiti, scartati i regali, di quei giorni ci rimangono solo abbandoni, perdite, reminiscenze, fantasmi. La fortuna è che possiamo scriverne.
L’eco del pallone che rimbalza tra le storie raccontate in questo libro segue una melodia comune, a metà tra l’euforia e la malinconia, e spesso tutte e due le cose insieme, come nelle canzoni dei Daft Punk che vedevamo passare in televisione in sottofondo alla versione di latino. Non deve sorprendere. Tutti gli autori sono nati – molti all’inizio, qualcuno in mezzo, pochi (beati loro) alla fine – nella decade dorata degli anni Ottanta. Siamo una generazione che ha condiviso l’apertura a una serie di mondi (per quanto qui interessa, mi limito a pensare alle televisioni commerciali per il calcio, agli Erasmus e ai voli low-cost per l’Europa) che – senza andare troppo indietro – i nostri fratelli più grandi hanno fatto in tempo solo a rimpiangere. Svanita l’euforia adolescente, ci addentriamo ora in un’età malinconica, quella di mezzo, in cui non è più lecito, ma anzi è addirittura truculento, provare euforia per il futuro, perché i nostri futuri sono già arrivati e non assomigliano a quelli che immaginavamo. Per consolarci, possiamo solo guardare indietro, aggrappandoci alle esperienze passate.
Questo non è un male. Anzi.
Il protagonista di uno dei racconti di questa raccolta, a un certo punto, citando Fontanarrosa, afferma che “l’unico calcio che vale è quello che uno conserva nei ricordi”.
Anche io ho sempre pensato che l’essenza del calcio sia fondamentalmente nostalgica, nella sua declinazione fantasmatica – pura football hauntology – di nostalgia del futuro. Sono passati più di vent’anni da quando Paulo Sergio faceva entrare nel nostro immaginario collettivo un controllo di palla, un campionato straniero, una maniera di pronunciare il nome del marcatore, eppure quel goal è qui con noi, come il pigiama che indossavamo cenando davanti al televisore il venerdì sera. Viviamo il paradosso e la contraddizione che il calcio che abbiamo vissuto non esiste più, eppure persiste nella nostra memoria come se fosse reale, e spesso anticipa – mischiandosi con episodi che non abbiamo vissuto, o che abbiamo deformato, o che non sono mai avvenuti – il calcio che vivremo. La vita che vivremo.
Ecco perché mi capita spesso, negli ultimi tempi, di svegliarmi la mattina provando una forte nostalgia di Funchal.
Perchè io, a Funchal, non ci sono (ancora) mai stato.
Redazione
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