“Sono l’unico magazziniere nella storia del calcio ad essersi portato a casa la coppa europea appena vinta”. Claudio Bosotin ha lavorato nella Sampdoria di Paolo Mantovani e ci tiene a questo primato, non per vanità ma perché racconta forse meglio di altri episodi quell’irripetibile squadra.
Partiamo dal principio, com’è riuscito ad ottenere il lavoro?
Nel 1979 mi trovavo senza un mestiere serio. Ero capo (e fondatore) degli “Ultras Tito Cucchiaroni”, ma in dieci anni di stadio non avevo mai domandato nulla alla società, non avevo mai ricattato alcun dirigente come purtroppo è successo e succede altrove. Mi decisi allora di scrivere una lettera a Paolo Mantovani, rendendomi disponibile a fare qualsiasi cosa all’interno della società.
Le rispose?
Subito e il giorno dopo ero già in prova. Iniziai gestendo i campi e a lavare gli spogliatoi. Negli anni ho fatto un po’ di tutto, sono rimasto in società fino a quando se ne è andato via Mancini. Nel frattempo il nostro presidente era morto e gli era succeduto il figlio: se il padre mi ha levato dalla strada, con Enrico Mantovani ho rischiato di finirci di nuovo.
Avrebbe fatto lo stesso mestiere per un’altra società, magari il Genoa?
Per cortesia, non scherziamo. Io ci tengo alla mia bandiera.
E per l’attuale società doriana lavorerebbe?
Con Ferrero non voglio avere nulla a che fare. Non sa neanche il nome della squadra, non lo considero uno dei nostri. Vedo che in tv spesso è maleducato con i giornalisti, con le donne. Ci fa fare delle figure meschine. Io per certe cose sono all’antica. Perfino quando c’è Crozza che lo imita, cambio canale. Mi irrita.
Com’era lavorare con i ragazzi di quella Sampdoria d’oro?
Mancio tagliava tutto. Tagliava le tute d’allenamento. Tagliava le maniche delle t-shirt. Tagliava i pantaloni per farli diventare bermuda. Poi certo sì, queste cose se le metteva ma “belin, Mancio sei uno stilista?”, gli dicevo. Ma uno che gioca al pallone così, può tagliarmi anche le orecchie. Roby per me è un fratello, me lo sono pure tatuato sul braccio. Ci sentiamo spesso, anche i figli mi telefonano frequentemente. È arrivato a Genova che era un bambino, si muoveva in bicicletta. Io sono finito a fargli da autista sia a Roma che a Milano, poi per problemi di famiglia sono dovuto ritornare a Genova.
E Vialli?
Anche Luca aveva le sua manie. Lui voleva le maglie larghe. I gemelli erano delle prime donne! In trasferta portavo un baule di scarpe solo per loro. Belin, gli servivano 40-50 paia di scorta. Vialli è un bravo ragazzo, un vero amico. Uno a cui piace scherzare. Quella Sampdoria era veramente una famiglia, si mangiava la pizza, si festeggiavano i capodanni insieme.
Quello in assoluto più difficile da accontentare?
Vierchowod. Uno a cui non andava mai bene niente. Che gran giocatore però.
Un altro che la fece impazzire?
Ci è riuscito Francis. Eravamo in trasferta, non mi ricordo se a Bergamo o a Brescia, stava iniziando la partita. Mi fece: “Boso, mi serve una maglia”. Gliene avevo consegnato quattro, due con le maniche lunghe e due corte. Ma le aveva già regalate tutte. “Belin, vuoi giocare con quella bianca mentre tutti gli altri sono in blu?”. Sono riuscito a farmi aprire il cancello della tribuna e a recuperarne una da un tifoso che l’aveva appena ricevuta in omaggio dal giocatore. Francis intanto se la rideva come un pazzo.
In casa terrà una collezione delle maglie più belle d’Europa, forse del mondo.
Le ho date via tutte. Facevano la fila per chiedermele e mi sono stancato. Io non sono uno che vive di ricordi. Ne ho tenuta solo una. Quella di Marco Lanna, un grande amico che mi è stato sempre vicino anche quando era nella merda.
E ora ci racconti di Goteborg.
Eravamo in aereo di ritorno dalla finale vinta di Coppa delle Coppe 1990. Indicando il trofeo, dico al mio collega, seduto affianco: “Se la vedesse mia madre, belin, le verrebbe un colpo”. Paolo Mantovani aveva ascoltato in silenzio il nostro dialogo e, una volta scesi dalla scaletta, disse: “La coppa se la porta a casa Boso, tanto a lui non serve nemmeno la scorta”. È rimasta con me tre giorni e mia mamma la baciava di continuo.
A Wembley invece non si ripetuto il miracolo.
Qualche gol sbagliato di Vialli, uno anche di Lombardo. L’arbitro dà quella maledetta punizione durante i supplementari, nemmeno lui era convinto di fischiarla. La batte Koeman, Pagliuca fa quel mezzo passo che faceva sempre sulle punizioni. Gol. È stato comunque bello esserci. A fine partita Mancini raggiunse l’arbitro per dirgliene di tutti i colori, sono entrato in campo per fermarlo e si è preso solo cinque giornate di squalifica. Conservo una foto dove piange come un bambino tra le mie braccia. Io di notte me la sogno ancora quella serata a Wembley.

Redazione

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