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LA STAGIONE CHE CAMBIA IL BASEBALL E SALVA L’AMERICA (Speciale 1968 a cura di Alessandro Mastroluca)

 

“Abbiamo qualche giorno difficile davanti, ma non mi preoccupo perché sono stato sulla cima della montagna. Come tutti, voglio vivere una lunga vita – che la longevità abbia il suo corso. Sono felice stasera; e non c’è niente che mi preoccupi; non ho paura di nessuno. I miei occhi hanno visto la gloria che verrà, la gloria del Signore”. È felice, il reverendo Martin Luther King. Il suo discorso alto, profondo, poetico, ha scaldato i lavoratori del servizio sanitario in sciopero a Memphis. Rientrato nella camera 306 del Lorraine Motel, nel cuore di un quartiere nero della citta, la gioia cresce: da Louisville sono arrivati suo fratello e parecchi amici.

Il giorno dopo, il 4 aprile 1968, King si affaccia al balcone. Intanto, dall’altra parte della strada, dalla finestra del bagno di una pensione economica, James Earl Ray sta prendendo la mira. Punta il suo fucile verso il reverendo e spara. King verrà dichiarato morto un’ora dopo, alle 19.05. Ray verrà arrestato a Heathrow, e coinvolgerà un misterioso Raoul, che avrebbe dato consigli a lui e al fratello Ray su quale fucile acquistare. Ray morirà nel 1998. Un anno dopo, in un processo civile, una giuria di Memphis dirà che qualcuno l’aveva pagato, le stesse conclusioni a cui era arrivato un comitato del goerno Usa nel 1976[1]. Una pagina di storia si chiude con un capitolo di sangue.

Mancano quattro giorni all’inizio della stagione della Major League Baseball, allora lo sport più popolare negli Stati Uniti. La notizia tocca particolarmente i St.Louis Cardinals, che stanno terminando la preparazione per l’Opening Day, il primo giorno di regular season, a St.Petersburg, in Florida. Tocca Roger Maris, l’ultimo arrivato: quando la marcia del reverendo ha attraversato Hibbing c’era anche suo fratello[2]. Tocca soprattutto Bob Gibson e James McCarver, due opposti che si attraggono. Un lanciatore nero, Gibson, che sta per vivere una stagione da record, e un ricevitore bianco del Tennessee che prima di arrivare a St.Louis non aveva mai visto un “negro” in tutta la sua vita.

Gibson è un simbolo di integrazione nel mondo dello sport, e non potrebbe trovarsi in una cornice migliore. C’è una famosa copertina di Sports Illustrated che quell’anno ritrae i Cardinals e ne racchiude lo spirito. Si vedono cinque bianchi, quattro giocatori e il manager, tre neri e due latini. “Eravamo la rainbow coalition del baseball” dirà.

Quando viene a sapere dell’uccisione del reverendo King, inizia una discussione appassionata, accesa, con McCarver. Gli dice che non può capire cosa significhi quella mattina essere un nero, che nessun bianco, nemmeno il meglio intenzionato, può dimenticare i pregiudizi. McCarver, però, gli risponde che proprio lui è la prova che l’integrazione può cambiare le persone, visto che un nero è diventato il suo migliore amico.

Robert Kennedy ricorda l’uomo che aveva un sogno e che a quel sogno ha sacrificato la vita con i versi di Eschilo. “Anche mentre dormiamo, il dolore che non riesce a dimenticare, cade goccia a goccia sul nostro cuore fino a quando, pur nella nostra disperazione e persino contro la nostra volontà, la saggezza prevale attraverso la grazia di Dio”. Negli Stati Uniti, aggiunge, “non abbiamo bisogno di odio, divisione o violenza. Abbiamo bisogno di saggezza e compassione”.

Il mondo del baseball, invece, si divide eccome. Il commissioner William Eckert, il responsabile della lega, è un generale in pensione dell’Air Force e al fronte si è guadagnato la fama non proprio edificante di “milite ignoto”. Non ha, insomma, una spiccata propensione per le decisioni. E anche stavolta non prende posizione, lascia che a scegliere siano le singole squadre.

Molti non vogliono giocare né l’8 né il 9 aprile, il giorno dei funerali di King. Chiedono il rinvio i giocatori di colore, protestano i Pittsburgh Pirates, che in rosa hanno undici giocatori neri, più di ogni altra squadra nella lega, e tre anni dopo presenteranno la prima starting line-up, la formazione titolare, composta da soli giocatori di colore nella storia della lega. Il più forte sostenitore della necessità di rispettare il lutto, però, non è un nero ma un portoricano, Roberto Clemente. Ha conosciuto King nel 1964, è rimasto conquistato dalla sua capacità di ispirare i poveri e ne seguirà l’esempio: morirà nel 1972, a Capodanno, mentre sta volando in Nicaragua per portare vestiti e medicine alle vittime del terremoto.

La tensione aumenta. A Baltimora, a Washington, a Chicago, a New York le rivolte, gli scontri fra bianchi e neri non si contano. Eckert si arrende, il campionato inizierà più tardi, il 10 aprile. È l’ultimo anno dell’era pre-playoff. Il formato è ancora quello antico: dieci squadre nella American League da una parte, dieci nella National League dall’altra, e le due vincitrici a sfidarsi nelle World Series, la finale al meglio delle sette partite. Diventerà “l’anno dei lanciatori”, che ottengono le percentuali di resa più alte di tutta l’era moderna, favoriti dal cambio di regolamento di cinque anni prima: il monte di lancio è più alto, l’area di strike è più estesa. Si può lanciare a un’altezza compresa fra le spalle e le ginocchia del battitore, se la manca per tre volte è eliminato.

Uno dei più grandi lanciatori di quella stagione è Don Drysdale, la leggenda dei Los Angeles Dodgers che il 4 giugno, contro i Pittsburgh Pirates, completa il sesto shutout di fila, la sesta partita consecutiva senza aver concesso nemmeno un punto agli avversari con i suoi lanci. Nessuno ci era mai riuscito prima, nessuno ci riuscirà nemmeno dopo, anche perché dal 1969 la lega cambierà le regole: ridurrà la zona di strike e abbasserà il monte di lancio per restituire importanza ai battitori.[3]

La sera stessa di quel 4 giugno, Robert Kennedy lo ringrazia nel suo discorso all’Ambassador Hotel di Los Angeles. Drysdale e Kennedy si conoscono, si sono incontrati attraverso i Job Corps, il primo perno della Guerra alla Povertà del presidente Johnson, si sono visti più volte a Los Angeles.[4] Kennedy ha appena vinto le primarie della California, ha coinvolto quasi 50 fra sportivi fra atleti e allenatori nella sua campagna elettorale. Ormai è il grande favorito per la nomination del Partito Democratico nella corsa alla Casa Bianca. “Voglio esprimere la mia più alta ammirazione per Don Drysdale” annuncia. È circondato da una folla entusiasta, non ci sono ancora le moderne misure di sicurezza, che lo applaude nonostante i microfoni non funzionino così bene. “Spero che anche noi, nella nostra campagna, potremo avere la stessa buona sorte” scandisce RFK, ministro della giustizia sotto la presidenza del fratello Jack, e ora in prima linea.

Dopo il discorso, i giornalisti spingono per ottenere una conferenza stampa. Kennedy allora viene fatto passare attraverso le cucine per raggiungere la sala stampa. C’è poco spazio, Kennedy passa nello stretto spazio fra un portavivande e una macchina per il ghiaccio. Non si accorge che lì dietro sbuca la mano di Sirhan Sirhan, un arabo cristiano nato a Gerusalemme nel 1944. Ha problemi mentali e di alcolismo, è ossessionato da Robert Kennedy da almeno un anno, per il suo appoggio alle operazioni militari israeliane che hanno portato alla Guerra dei Sei Giorni. “Kennedy deve morire prima del 5 giugno”, primo anniversario del conflitto, scriverà nel suo diario.[5]

Sirhan compie la sua missione con quattro colpi del suo revolver calibro 22. Quando gli agenti della scorta e Rafer Jhonson, ex oro olimpico nel decathlon, lo disarmano, è troppo tardi. Sirhan ha avuto anche il tempo di svuotare il caricatore e ferire altre cinque persone.[6] Robert Kennedy morirà 26 ore dopo all’Hospital of the Good Samaritan.

Ancora una volta la situazione sfugge completamente di mano[7]. Al centro c’è il programma di sabato 8 giugno, il giorno dei funerali a New York, e di domenica 9, che il presidente Johnson ha dichiarato giorno di lutto nazionale. Baltimore cancella la doppia sfida di domenica contro gli Athletics e i Red Sox, la squadra per cui RFK faceva il tifo, fa lo stesso e rimanda i match contro Chicago.

Eckert cancella solo due partite, previste nel giorno dei funerali, a Washington e New York. Tutti gli altri possono anche giocare, a patto di cominciare dopo la sepoltura a Arlington. I Pittsburgh Pirates dovrebbero affrontare gli Houston Astros ma anche stavolta non vorrebbero giocare Non tutti i compagni, però, appoggiano la posizione di Clemente.

I Cardinals hanno già affrontato e sconfitto i Cincinnati Reds nel pomeriggio di sabato. C’è una seconda partita che dovrebbe iniziare alle 19, ma il corteo funebre di Kennedy raggiunge Arlington solo alle 22.30. Si rimanda tutto alla domenica. I Reds mettono la decisione ai voti. La decisione è chiara: vogliono cancellare i match e rispettare il lutto nazionale. I dirigenti, però, non la pensano così. Milt Pappas, il rappresentante dei giocatori dei Reds è furioso e quasi viene alle mani con il direttore generale Dick Wagner. Tre giorni dopo verrà ceduto agli Atlanta Braves. È una mossa preparata da tempo, si difende la società, il litigio con Wagner non c’entra nulla.

I San Francisco Giants, invece, mantengono ferma la decisione di rinviare a domenica 9 la doppia sfida contro i New York Metz. È una scelta non banale. Per quel sabato infatti hanno fissato il Bat Day: tutti i ragazzi sotto i 14 anni che assistono alla partita ricevono una mazza da baseball di quelle che si usano per i campionati giovanili. Per questo hanno già venduto 40 mila biglietti. Anche per questo, il giornalista Red Smith apprezza la scelta di principio della squadra. “Il loro gesto “è uno dei pochi momenti commoventi di un weekend di vergogna” scrive. Il lutto nazionale, sottolinea, non è una manifestazione di dolore privato. Rispettarlo o ignorarlo è “una dimostrazione pubblica di rispetto o callosa indifferenza”[8].

Il lutto, di fatto, non è poi così nazionale. Ognuno fa praticamente come vuole. Eckert paga la volontà di piacere a tutti, così scrive Dick Young sul Daily News. “Mi hanno insegnato che gli studenti non dovrebbero gestire le scuole, i pazienti non dovrebbero gestire gli ospedali e i giocatori di baseball non dovrebbero dire ai proprietari delle squadre quando giocheranno (…). Quando succede, il commissioner fa una pessima figura. Quando succede, il baseball fa una pessima figura”[9].

Dopo la morte di Kennedy, il principale candidato democratico per sfidare Nixon diventa Hubert Humphrey, il vice di Lyndon Johnson. La sua è una presidenza a due facce. Ha nominato Thursgood Marshall primo giudice nero alla Corte Suprema, ha lanciato la sfida decisiva al razzismo dominante negli Stati del Sud, ha firmato la legge sui diritti civili. La sua idea di “Great Society” dà corpo all’evanescenza della “Nuova Frontiera” di Kennedy. Ha lanciato la guerra alla povertà ma l’America non gli perdona il fallimento dell’escalation militare in Vietnam[10]. Per questo va in tv e annuncia che non si ricandiderà per un secondo mandato. Humphrey deve vincere l’opposizione interna di Eugene McCarthy che insiste sulla necessità della fine dei bombardamenti in Vietnam e si propone come l’uomo del cambiamento, aperto alle istanze del Black Power, alle rivendicazioni dei cittadini neri e discriminati.[11]

Humphrey, invece, non dissente dalla politica di Johnson[12], che ha fatto salire da poco più di 150 mila a mezzo milione in un anno il numero di soldati coinvolti in una guerra che gli Stati Uniti dimostrano di non sapere e di non poter vincere.

Alla vigilia della Convention, però, riceve un endorsement inatteso e prezioso da Jackie Robinson, il primo giocatore nero nella storia della MLB, che si è sempre battuto perché “nessun americano (debba) più chiedere per ottenere quel che dovrebbe essere suo”. Robinson, che nel 1960 ha fatto campagna per Nixon, che nel 1963 ha visto la sua famiglia partecipare alla marcia su Washington di Martin Luther King e ascoltare il celebre “I have a dream” al Lincoln Memorial,[13] si considera un indipendente. È stato vicepresidente della catena di caffè Chock full o’Nuts,, primo uomo di colore che sia mai salito a questa carica in un’azienda statunitense, ha sostenuto Rockfeller, governatore repubblicano dello Stato di New York, e attaccato Robert Kennedy in un articolo pubblicato sul New Amsterdam News, diventato celebre perché uscito, con tempismo sfortunato, tre giorni dopo il suo assassinio[14]. Il pomeriggio del 14 agosto 1968, davanti alla Freedom National Bank di Harlem, tiene un discorso in favore di Humphrey. Gioca in casa, almeno crede. Robinson ha aiutato a fondarla quella prima banca commerciale nel cuore nero degli Stati Uniti.[15] Un migliaio di persone lo aspetta, ma l’accoglienza è fredda. Lo accusano conunque di essere uno “zio Tom”, troppo accomondante con l’uomo che ha contribuito a mandare tanti ragazzi neri a morire in Vietnam.

In una Chicago blindata dal sindaco Daley, che ha paura anche dell’assurda minaccia degli yippie (lo Youth international party) di sciogliere LSD nell’acqua dei rubinetti, la convention all’International Amphiteatre premia la candidatura di Humphrey, “il grigio, verboso, insopportabile vicepresidente di Lyndon Johnson”[16]. In piazza scendono tutti, renitenti alla leva e figli dei fiori, pantere nere e protofemministe, discepoli di Marcuse e ammiratori di Bertrand Russell, per gridare “Dump the Hump!”, “Scaricate Humphrey”. La battaglia non risparmia nemmeno i giornalisti e i fotografi, invitati dal sindaco a non scattare con i teleobiettivi fuori dalle finestre perché avrebbero potuto essere scambiati per i mirini di un fucile.

In quei giorni, Humphrey medita una mossa che potrebbe restituirgli un po’ di popolarità: proporre come vice-presidente Vince Lombardi, l’allenatore più vincente di sempre in NFL, la lega del football americano, che ha lasciato i Green Bay Packers dopo aver vinto i primi due Super Bowl[17] della storia (nel 1966 e 1967), lontani dall’atmosfera glamour con tanto di scintillanti show con le più grandi pop star che si esibiscono all’intervallo.

Lombardi è un nome molto caldo in quelle settimane. Anche Nixon, che è stato un modesto giocatore al college e al suo allenatore di allora deve la lezione più importante della sua carriera, “Devi odiare perdere”, vorrebbe presentarlo come vice-presidente. Ma scopre che, nonostante il piglio quasi militaresco con cui guida le sue squadre, Lombardi vota per i democratici e ha appoggiato la campagna di Kennedy. Così vira su Spiro Agnew. Humphrey invece si presenterà con Edmund Muskie, un senatore del Maine che per gli indipendenti è anche più credibile di lui.

Humphrey sa di aver comunque bisogno di endorsement, e torna a chiedere il supporto di Robinson durante le World Series. Nell’anno dei lanciatori, sono arrivati a giocarsi il titolo, i due migliori interpreti del ruolo in tutta la stagione. Si sfidano i St.Louis Cardinals di Gibson, che chiuderà l’anno con la media di punti concessi ai battitori più bassa di sempre, e i Detroit Tigers di Danny McLaine, il primo giocatore dal 1934 a vincere più di 30 partite in regular season.

Gibson inizia la serie di finale con 17 strikeout (l’eliminazione del battitore, che avviene al terzo strike) in gara 1. Ad applaudirlo c’è anche anche Frank Sinatra che è in tribuna insieme alla figlia di Nixon. Ma Gibson, per tutta la partita, è come se non sentisse gli applausi, e non guarda nemmeno verso il maxischermo. Dà solo un’occhiata distratta mentre tutto lo stadio scopre che ha appena battuto il record di eliminazioni in una gara di World Series, e il primato resiste ancora oggi.

Dopo tre partite, i Cardinals sono in vantaggio 2-1. Gibson sta dando spettacolo, sul Detroit Free Press compare una vignetta in cui è ritratto in costume da Superman e la scritta che racconta lo spirito di quella vigilia: “Speriamo che le cabine telefoniche intorno al Tiger Stadium siano troppo affollate per essere usate come uno spogliatoio”. A St.Louis, infatti, non si parla d’altro che di Gibson, come se ai Cardinals non giocasse nessun altro. Willie Horton lo capisce che questa potrebbe diventare una debolezza dei Cardinals, che già un anno prima hanno perso le World Series dopo aver vinto le prime due partite. “Annulla Gibson, e il loro spirito crollerà” spiega. Ancora non sa quanto si rivelerà profetico.

In tribuna, in gara 4, ci saranno anche Humphrey e Robinson che dopo anni accetta di tornare in uno stadio per assistere a una partita verso la quale non ha alcun interesse. Ma l’interese è lui a crearlo. Rivela ai giornalisti un piano del Partito Repubblicano, che un suo amico gli avrebbe rivelato. Vogliono tenere sequestrati in casa i neri nel giorno delle ultime elezioni presidenziali degli anni Sessanta.[18] Questo progetto, molto supposto, andrebbe contro ogni idea di politica in cui ha sempre creduto. È sorpreso soprattutto da Rockfeller, che crede non abbia fatto abbastanza per contrastare Nixon. Ecco perché, nonostante i dolori sempre più forti alle gambe, per la malattia che ormai avanza, si siede accanto a Humphrey al Detroit Stadium in un pomeriggio che diventa sera e di pioggia che diventa tempesta.

Gara 4 inizia con 37 minuti di ritardo, e nel terzo inning verrà interrotta per altri 74 minuti sotto un temporale sempre più forte. Lo spettacolo va avanti, e diventa lo show più visto, allora, della televisione Usa: la suspense attira 78,5 milioni di telespettatori. Alla ripresa, McLain non torna in campo, Gibson sì e chiude la settima partita di fila nelle World Series con almeno dieci strikeouts. I Cardinals vincono 13-5, è la vittoria esterna più netta nelle finali per il titolo dal 1960.

Robinson, però, non vede il finale, se n’è andato dopo il settimo inning. Ci vorrà un altro anno perché incontri finalmente Gibson, a un banchetto davanti alla Casa Bianca, e continuerà a sostenere Nixon pur pressandolo sul tema dei diritti civili.

Gibson e i Cardinals sognano il titolo, in fondo manca solo una vittoria. Gara 5, però, inizia con José Feliciano che canta l’inno nazionale in una versione melodica, un po’ come aveva fatto con Light my Fire dei Doors, la cover che l’ha reso celebre. Un gruppo di veterani scrive una lettera di fuoco da un ospedale di Houston allo Sporting News. “Alcuni di noi hanno visto compagni morire in Vietnam, soldati cantare parti dell’inno nazionale mentre davano la vita per la nostra nazione (…). Sentire il nostro inno cantato in modo così disonorevole è una disgrazia per il patriottismo, per i soldati in servizio e per il baseball”[19].

I Tigers schierano come primo lanciatore Mickey Lolich, che un anno prima, durante le violenti rivolte a Detroit, aveva saltato due settimane in quanto membro della Michigan Air National Guard. Lolich, che ha una palla difficile da leggere per i battitori, aiuta i Tigers a vincere 5-3 e accorciare nella serie. Gara 6 è un disastro per i Cardinals. McLain in campo solo grazie al cortisone ma i Tigers vincono 13-1.

“Gara 7 era tutta una questione fra me e Lolich” scrive Gibson nel suo libro di memorie, “per me, la ragione di essere un atleta è tutta in una sfida come questa”.

Il tecnico Mayo Smith chiede a Lolich di lanciare per un paio di inning, così da sfidare Gibson, l’asso pigliatutto dei Cardinals. Ma dopo cinque inning, il punteggio è ancora 0-0. “Te la senti di giocarne un altro?” gli chiede. Se la sente, ma il punteggio non cambia. “Che ne dici di un altro?”. Stavolta almeno i Tigers hanno ottenuto tre corse sulle basi nella prima metà del settimo inning. “Adesso, la finisco per te” gli dice Lolich. “Era proprio quello che volevo sentire”.

Dopo due ore e 7 minuti, i Detroit Tigers vincono 3-0 e centrano il titolo MLB.[20] A un anno dalle peggiori proteste nella storia degli Stati Uniti, con le ferite ancora aperte per le rivolte del 1967, lì dove tutto era iniziato, era scoppiato, era bruciato, finito, all’angolo fra Clairmount e la dodicesima, adesso si sentivano solo le radioline accese, le voci gracchianti, l’eco lontana di emozioni senza tempo. È l’autunno della rivincita, di una meravigliosa ebbrezza collettiva.

Il problema della razza però, commenta amaro Gibson in una celebre intervista a Dwight Chapin sul Los Angeles Times, “si risolverà solo molto lentamente. Forse il mondo verrà distrutto prima che sia risolto Quando Jackie Robinson ha rotto la barriera della razza nel baseball, non era rispettato come uomo, ma solo perché sapeva giocare a baseball meglio di altri. Quello di cui abbiamo bisogno nello sport e nella società è che l’uomo bianco arrivi a rispettare i neri per quel che sono, non meramente per quel che fanno”[21].

 

[1]    Le conclusioni sono contenute nel rapporto dell’House Select Committee on Assassinations, l’organo che nel 1976 indaga sulle morti del reverendo King e del presidente Kennedy.

[2]    S.Pappu, The year of the pitcher, Houghton Mifflin Harcourt, 2017 p.175

[3]    In quell’anno verrà anche introdotto il logo, che conosciamo oggi, fra i più popolari nella storia dello sport Usa. L’ha disegnato Jerry Dior che per quarant’anni se ne dimenticherà e non accamperà alcun diritto su quello che si può considerare l’equivalente sportivo del logo della Coca Cola.

[4]    Anche Mudcat Grant ha frequentato i Kennedy dall’epoca di JFK presidente, quando era solo un discontinuo lanciatore degli Indians. Una volta a Detroit, quando la squadra si è trovata nello stesso albergo del presidente, Kennedy l’ha invitato a colazione. Gli ha raccontato della città dov’era nato in Florida, ancora senza una scuola e con i neri segregati in un quartiere malfamato. Grazie all’interesse di JFK, la città ottiene una scuola, case migliori, un parco, e Grant incontra anche Shriver e Bobby Kennedy.

[5]    “La mia determinazione di eliminare R.F.K. sta diventando sempre di più un’ossessione che non riesco a togliermi di dosso” annota nel suo diario il 18 maggio 1968.

[6]    Pochi istanti prima di essere trafitto dal primo proiettile, Kennedy ha stretto la mano del giovane Juan Romero, il primo a soccorrerlo nei successivi, drammatici istanti. Gli metterà in mano un rosario. “Stanno tutti bene?” gli chiede Kennedy. “Sì, andrà tutto bene” lo rassicura.

[7]    The Sporting News, cit.in T.Wendel, The summer of ’68 – The season that changed baseball, and America, forever, Da Capo Press, 2012

[8]    T.Wendel, op.cit.

[9]    S.Pappu, op.cit., p.161

[10]  “Gli storici hanno prodotto lavori importanti negli ultimi anni che hanno dimostrato come la guerra in Vietnam non sia stata né un errore inevitabile né un’operazione decisa dai consiglieri di un presidente ignaro” scrive Zelizer. Molti studi recenti, aggiunge, fanno emergere l’immagine di un presidente che pur conoscendo i rischi “connessi all’accelerazione della guerra” ha ignorato gli allarmi “come risultato del suo machismo e degli sforzi disperati perché i Repubblicani non lo considerassero un debole in materia di difesa”. Cfr. J.E.Zelizer, “What Hollywood forgets about LBJ”, 17 ottobre 2017, The Atlantic

[11]  McCarthy si propone come l’uomo del cambiamento quando va a parlare alla Tabernacle Baptist Church, quartier generale in città dell’Operation Breadbasket, il dipartimento della Southern Christian Leadership Conference, l’organizzazione di Martin Luther King. Il Black Power, dice, è un concetto che gli piace, un movimento che avrebbe tante valide ragioni per organizzarsi politicamente. Si concede anche un ultimo, prezioso e forse disperato, tentativo di stupire. “Le persone hanno diritto a protestare” declama, “quando i sistemi e le istituzioni non rispondono”.

[12]  Fu proprio Humphrey a scrivere al presidente nel celebre memorandum del 17 febbraio 1965 che “politicamente, è sempre difficile tagliare le perdite. Ma l’Amministrazione Johnson è nella posizione più forte di qualunque altra amministrazione in questo secolo. Il 1965 è l’anno del rischio minimo per l’amministrazione Johnson. È il primo anno in cui possiamo affrontare il problema del Vietnam senza essere preoccupati delle ripercussioni politiche da parte della destra repubblicana”.

[13]  M.Newman, “Breaking of baseball’s color barrier vital to King’s Dream”, MLB.com, 19 gennaio 2015

[14]  In un successivo articolo, Robinson non si pentirà di aver detto quel che pensa anche se, scriverà, “Kennedy non meritava, come ogni uomo, di essere sparato perché qualcuno non era d’accordo con lui o non sopportava gli ideali che difendeva”.

[15]  A.L.Yarrow, “Freedom Bank’s Failure Hits Harlem Like a Death in the Family”, New York Times, 12 novembre 1990

[16]  A.Zampaglione, “Chicago ’68, la città è in rivolta”, Repubblica, 25 agosto 1996

[17]  La finale per il titolo deve il suo nome, Super Bowl, all’assonanza con la Super Ball, una palla rimbalzina molto in voga all’epoca.

[18]  S.Pappu, op.cit., p.260

[19]  S.Pappu, op.cit., p.268

[20]  Per informazioni sulle World Series 1968 cfr T.Wendell, op.cit., parte VI

[21]           B.Chapin, “Bob Gibson: black man nobody wanted – until he was a hero”, Los Angeles Times, 5 luglio 1968, p.41

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