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LA RIVOLUZIONE DI PRIMAVERA (Speciale 1968 a cura di Alessandro Mastroluca)

Candelieri lucidi e balaustre d’ottone fanno risplendere di luce l’Hotel Parigi. Chi si fosse affacciato da una delle finestre di quel capolavoro Art Nouveau, tra i mosaici di quel palazzo che sembra d’oro, avrebbe visto un uomo alto, dal naso affilato e con un cappello calato sul viso, aspettare il suo turno alla porta di una latteria. La piccola casa che la ospita, al centro di Praga, è attaccata a un altro ex albergo, requisito dai nazisti durante la guerra e ora trasformato in residenza per i rappresentanti del partito comunista. La donna che gli porge latte e pane gli sorride, ha già visto quell’uomo nei giorni scorsi e alla televisione. L’uomo saluta ed entra sulla Tatra nera, l’elegante auto di rappresentanza. Chi fosse affacciato dall’hotel ne intuirebbe la sgommata rapida dell’autista e seguirebbe con gli occhi l’inizio di uno strano percorso. È il 5 gennaio 1968 e quell’uomo, che in quei giorni soffre di stomaco, è Alexander Dubček: quella sera sarebbe stato nominato nuovo segretario del partito comunista cecoslovacco.[1] Sta per iniziare la Primavera di Praga.

Il vento del cambiamento era già arrivato un’estate prima. Soffia dal quarto congresso dell’unione degli scrittori, contrari alla pratica di controllo e supervisione sulla stampa. Il discorso d’apertura è affidato a Milan Kundera. La soppressione delle opinioni, dice, è contraria alla verità. Ogni interferenza con la libertà di pensiero e parola è uno scandalo. La libertà di pensiero “è il principio morale basilare della moderna civiltà”[2]. Gli intellettuali cechi e slovacchi rappresentano il pensiero borghese e in qualche caso le classi popolari. In una nazione da generazioni senza una vera nobiltà, la distanza con il popolo si riduce e gli studenti assorbono le novità di un tempo di attese, orgoglio e speranza. Novità racchiuse in tre parole: socialismo, sovranità, libertà.

Parole che possono mettere in crisi il ruolo della Cecoslovacchia nel Patto di Varsavia e il rapporto di subordinazione che unisce tutti i Paesi dell’area comunista all’Unione Sovietica. Mosca però non reagisce subito alla nomina di Dubček, che in Unione Sovietica è cresciuto ed è tornato in Slovacchia solo prima della Seconda guerra mondiale, quando il governo ha messo le famiglie dei comunisti esiliati davanti al bivio: diventate cittadini sovietici o andatevene. Qualche dubbio, però, negli osservatori più attenti comincia a sorgere. Dubček infatti aveva vissuto la stagione riformatrice di Kruscev e si era avvicinato ai critici della politica del PCUS.

Il primo terreno di scontro è un campo neutro, il Palais des Sports di Grenoble. È la penultima giornata del torneo olimpico di hockey su ghiaccio, l’unico nella storia di questo sport in cui si siano mai affrontate Germania Est e Germania Ovest. Le otto squadre che si giocano le medaglie sono inserite in un girone unico. Alla penultima giornata si gioca la sfida che molti considerano decisiva. L’Unione Sovietica, che non perde da Innsbruck 1964, affronta la Cecoslovacchia, dove l’hockey è sport nazionale almeno quanto il calcio. La tradizione risale ai tempi della Boemia, tra i fondatori della federazione internazionale[3]. La Cecoslovacchia resta una nazione di riferimento fino al 1950, quando i comunisti arrestano e imprigionano quasi tutta la nazionale, accusata di tradimento e cospirazione. Non si saprà mai chi e perché ha iniziato il processo. Ma da quel momento emerge la potenza sovietica, che vince il primo titolo mondiale nel 1954.

L’Urss arriva dal 10-2 sugli Stati Uniti, la sconfitta più pesante per gli Usa contro i grandi rivali in tutta la Guerra Fredda. È la nazionale della stella Anatoli Frisov, capocannoniere dei Giochi di Grenoble, 12 gol totali, che ha vinto otto titoli sovietici tra il 1964 e il 1971. In Urss lo sport è la prosecuzione della guerra con altri mezzi. La nazionale di hockey non fa eccezione. Da quando è arrivato coach Anatoli Tarasov, il governo ha aumentato le risorse. Tarasov sceglie i giovani migliori da tutta la nazione e li sottopone a un regime di allenamento dittatoriale, che esalta il lavoro di squadra con strategie ispirate al calcio, agli scacchi, perfino al balletto. La nazionale diventa un microcosmo della società[4].

Mayorov, leggenda dello Spartak Mosca, illude l’Unione Sovietica, che però rallenta la pressione. František Ševčík, un portatore d’acqua, pareggia. Petr Hejma porta la Cecoslovacchia in vantaggio. Sposato con Marta Luzova, una delle migliori giocatrici di tennis tavolo dell’intera nazione, Hejma è considerato uno dei pilastri della nazionale del futuro ma a settembre diserterà in Germania: squalificato 18 mesi, diventerà uno dei migliori giocatori del campionato tedesco[5].

Il primo periodo si chiude 3-1 per il gol di Jan “Gusta”[6] Havel, che dopo un incidente quasi mortale con un autobus ha rinunciato all’amore per le moto da cross[7]. È un difensore ad accorciare per l’Unione Sovietica, Victor Blinov, che sarebbe morto quell’autunno per un attacco di cuore in allenamento[8] . Il gol più importante della partita lo segna Jozef Golonka, per tutti “Rasoio”, “il Pelè sul ghiaccio, il Botticelli con una mazza da hockey”[9]. Miglior giocatore al Mondiale del 1965, è figlio di un’allenatrice di pattinaggio di figura che alla vigilia della seconda guerra mondiale gestiva lo stadio dell’hockey di Bratislava. . “Se avessi un giocatore come Golonka, vincerei il Mondiale al 100%”, ammette Tarasov. Ma quel giocatore non ce l’ha e la Cecoslovacchia vince 5-4, con l’ultima rete di Jaroslav Jirik, il primo a passare in NHL dalla Cortina di Ferro nel 1969. L’Unione Sovietica perde dopo 39 vittorie di fila. Sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo, il giorno dopo campeggia una foto di Golonka con la mano verso il cielo e l’orecchio poggiato sul ghiaccio. C’è da giocare però ancora un’ultima partita e la Cecoslovacchia la pareggia (2-2) contro la Svezia, già fuori dai giochi. La Cecoslovacchia arriva seconda. L’oro è ancora dell’Urss che batte il Canada, una delle nazioni guida dello sport, 5-0 con una prestazione sontuosa del portiere Viktor Konovalenko.

La vittoria non crea particolari reazioni in Cecoslovacchia. È il segno che l’ala più filo-sovietica del partito sta perdendo presa. Agli oppositori non serve, allora, lo sport per affermare la voglia di libertà. “La Cecoslovacchia batte l’Unione Sovietica, ma si lascia scappare la vittoria olimpica” titolerà l’edizione tedesca di un almanacco dello sport di fine anni ’80. Chi sfogliasse l’edizione associata polacca avrebbe un’enfasi diversa: “Vittoria d’onore per una medaglia d’argento”. Sarà proprio la Polonia, però, una delle cinque nazioni che invaderanno Praga ad agosto.

La primavera porta rinascita. Dubček cancella ogni forma di censura, la politica diventa argomento di discussione nei bar e nei pub prima del calcio. I giovani si riuniscono nelle case, chiunque ha una radio per ascoltare la BBC diventa un riferimento, chi parla inglese passa spesso interi pomeriggi a tradurre il respiro del mondo.

La primavera, però, porta allo stesso tempo preoccupazione. A Mosca, la Cecoslovacchia che si muove in direzione anti-comunista preoccupa Brežnev. Il presidente ordina una commissione, un organo del Politburo che monitora la situazione quotidianamente e a lui direttamente risponde.

Dubček sogna una nazione con elezioni davvero libere, imprenditori privati e commercio con l’occidente. Un sogno così non tornerà mai più. Suona profetico il manifesto delle duemila parole. “Ci appelliamo a tutti quelli che stanno aspettando di vedere quello che succede. I tempi che verranno determineranno gli eventi per gli anni a venire”, scrive Ludvík Vaculík, profeta involontario della fine di un’epoca breve di speranza per tutti.

Brežnev incontra a Varsavia i rappresentanti di Polonia, Ungheria, Bulgaria e Germania Est. Molti avranno letto l’articolo del giorno prima sulla Pravda sugli “attacchi contro le fondamenta del socialismo”, contro quella “controrivoluzione invisibile” e pacifica che potrebbe “sovvertire gli elementi utili del socialismo”. Il risultato è una lettera inviata a tutto il partito cecoslovacco: con il socialismo non si scherza. Allora il partito si spacca, i più radicali vorrebbero andare allo scontro aperto con Mosca e liberarsi dei dirigenti più moderati. Dubček prova a tenerlo insieme, fissa il congresso straordinario per settembre e rassicura Mosca. La risposta alla “lettera di Varsavia” maschera lo scenario di un cambiamento epocale, con le file davanti alle edicole perché adesso i giornali hanno qualcosa da dire e la linea del partito che non entra più nei programmi della tv di Stato. La risposta “diceva: ci sono molti americani e tedeschi occidentali che provano a danneggiarci ma il socialismo non è in pericolo nella nostra nazione” racconterà Kenneth Skoug, diplomatico Usa a Praga fra il 1967 e il 1969. “È tutto sotto controllo, non preoccupatevi per noi”.

Il Politburo ha già, di fatto, deciso di invadere la Cecoslovacchia. Non si aspettano più nulla da Dubček, la pazienza per i continui rinvii alle richieste di cancellare le libertà concesse è finita. Brežnev e Dubček si parlano dai vagoni di due treni ai due lati del confine slovacco-ucraino a Cierna Nad Tisou. Altre parole vuote. Il 13 agosto, Brežnev telefona a Dubček dalla Crimea. Parlano per quasi un’ora e mezza. Brežnev protesta, Dubček si era impegnato a mettere giornali, radio e tv di nuovo sotto il controllo del comitato centrale del partito, ma gli attacchi ai sovietici sono continuati. Il tono di Brežnev è sempre più aggressivo. “Le decisioni vanno prese collettivamente”, si difende Dubček, “non è una questione che si possa risolvere con una direttiva dall’alto applicata ovunque”. Promette una soluzione entro la fine di ottobre. “Ti parlo francamente”, sbotta Brežnev, “ci dai solo un’altra delusione. Se non risolvi il problema, a me sembra che non controlli più il partito”. “Compagno Brežnev, prendete tutte le misure che il Politburo considera appropriate”, dice Dubček. Un consiglio certo poco ispirato. Brežnev è glaciale, Dubček sempre più incoerente, ripetitivo, preoccupato, in trappola fra la fedeltà delusa all’Unione Sovietica e il potere di Brežnev che gli chiede di rimuovere dal comitato i più critici, Cisar, Kriegl e Pelikan. “Perché tutto deve essere fatto così di fretta?” chiude Dubček.

Il 17 gli arriva un’altra telefonata. “Compagno Sascia, ma davvero hai capito con che razza di gente hai a che fare al Cremlino?”. Nel suo studio appena rinfrescato da un ventilatore sulla Moldava, Dubček lancia un’occhiata al consigliere per la sicurezza nazionale Zdenek Mlynar. All’altro capo del filo l’amico, che non poteva più fare altro, aveva riagganciato. Era Janos Kadar, aveva chiamato di sua iniziativa da Budapest tentando invano di risparmiare ai cecoslovacchi e a se stesso un remake della tragedia che lui complice e correo dodici anni prima aveva investito l’ Ungheria[11].

Il 20 agosto è una sera calda. Il giovane Jan Urba, 17 anni, scende dall’ultimo volo della British European Airways. È figlio di un funzionario comunista, diventerà un giornalista e un insegnante. È stanco, si addormenta presto, non sente l’annuncio di Radio Praga all’1.55 della notte. “Intorno alle 23, truppe dell’Unione Sovietica e di altre nazioni del Patto di Varsavia sono entrati nella nostra nazione senza la consapevolezza dei dirigenti cecoslovacchi”, scandisce Karel Lanský.

Un giornalista americano, invece, è sveglio. Esce di casa con la nipote, vede una decina di carri armati che girano intorno al monastero di Strahov. Cercano di raggiungere il castello, sembra che si siano persi. I cecoslovacchi, però, bloccano l’accesso. Gli scontri si ripetono, anche più gravi, davanti alla sede della radio, e coinvolgono centinaia di cittadini. All’invasione partecipano anche le truppe di Germania Est, Polonia, Bulgaria e Ungheria. A tutti Brežnev ha detto che stanno rispondendo a una richiesta di aiuto dei cecoslovacchi, si stupiscono che la gente sia così ostile.[12] A Mosca, a parte una piccola protesta sulla Piazza Rossa immediatamente fermata dal KGB, e in tutta l’Unione Sovietica la vita torna alla normalità. La gente riempie i cinema e osserva le scene di un lungo cinegiornale: si vedono cechi e slovacchi, almeno così viene detto, che lanciano mazzi fiori ai sovietici venuti a salvarli dai controrivoluzionari e dai sovversivi venuti dall’occidente. La messa in scena non convince, ma il messaggio è chiaro: il socialismo dal volto umano è morto.

La mattina dopo il Parlamento rilascia un comunicato. “Nessun organismo costituzionale della Repubblica Sociale Cecoslovacca ha consentito né ha invitato le truppe d’occupazione dei cinque paesi del Patto di Varsavia né è stato incaricato di trattare con loro. L’Assemblea considera l’occupazione come un atto di violenza internazionale in contrasto con i principi degli accordi di alleanza che la Cecoslovacchia ha stipulato con tali Stati. L’assemblea protesta energicamente presso i governi e i parlamenti dei Paesi dell’occidente e chiede la cessazione immediata dell’atto di violenza, il ritiro immediato delle truppe e la normalizzazione dei rapporti internazionali”.

Reagisce il presidente Usa Lyndon Johnson, e intanto richiama Shirley Temple, che era a Praga per diventare ambasciatrice statunitense per una Cecoslovacchia libera. Anche il presidente dell’Onu condanna l’invasione. Di fronte all’immagine dei carri armati a piazza San Venceslao non si può restare indifferenti. Si schierano sui 700 metri del viale, sui Piccoli Champs-Élysées, sotto l’enorme statua equestre del santo che ha testimoniato la nascita della Repubblica nel 1918 e le manifestazioni in favore dei nazisti negli anni ’40. E vede, nel gennaio del 1969, Jan Palach darsi fuoco mentre la luce del pomeriggio svanisce con fretta invernale, sulle mura gotiche del castello di Hradcany e su quelle barocche del quartiere di Mala Strana.

Un tranviere lo osserva mentre si cosparge di benzina ai piedi della scalinata, davanti al museo nazionale. Fa appena in tempo a notare che il ragazzo ha acceso un fiammifero quando viene abbagliato dalla vampata. La folla, numerosa a quell’ora, è paralizzata davanti alla torcia umana. Jan getta a pochi metri di distanza lo zaino a tracolla che porta sempre con sé. Dentro conserva una delle quattro copie della lettera che ha scritto la mattina, sul letto dell’appartamento che divide con altri cinque studenti, in compagnia dei ritratti del presidente Svoboda, di Komenius, l’inventore della pedagogia ceca, e di un Buddha pensoso.[13] “Poiché i nostri popoli sono sull’ orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l’ onore di estrarre il numero uno, è mio diritto scrivere la prima lettera e di essere la prima torcia umana. Noi esigiamo l’ abolizione della censura e la proibizione di Zpravy (il giornale delle forze di occupazione sovietiche). Se le nostre richieste non saranno esaudite entro cinque giorni, il 21 gennaio 1969, e se il nostro popolo non darà un sostegno sufficiente a quelle richieste, con uno sciopero generale illimitato, una nuova torcia si infiammerà”[14].

Palach protesta contro l’occupazione che si è trasformata da successo militare in fallimento politico per l’Urss, che non riesce a organizzare un governo alternativo, non trova chi sia disposto a collaborare, e si ritrova a dover ancora trattare con Dubček. È la normalizzazione, bellezza, che ha il volto miope, la sagoma autoritaria ma curva, lo stile grigio del vicesegretario Gustav Husak.

L’inizio di un’altra primavera da aspettare ancora porta nuove preoccupazioni e nuove speranze. Praga avrebbe dovuto ospitare i Campionati del mondo di hockey su ghiaccio del 1969 che però per ragioni di Stato e di sicurezza si giocano a Stoccolma. Ma organizzare una manifestazione così in sei mesi non è semplice ma Helge Berglund, presidente della federazione hockey svedese, è uno degli uomini politici più in vista dei socialdemocratici, il principale partito svedese. Una forte campagna stampa fa il resto. Alla festa partecipa anche la tv pubblica, SVT, che trasmette sei partite in diretta e a colori. Acquista quattro telecamere e una macchina per i replay, e fa spostare tutte le luci all’interno dell’Ice Hockey Stadium.

Il 21 marzo, equinozio di primavera, la Cecoslovacchia senza più il sogno della Primavera di Dubček affronta l’Unione Sovietica. Ancor più di un anno prima, è molto più di un gioco. I cecoslovacchi sanno bene che quasi tutti gli avversari che si trovano di fronte giocano nel Cska Mosca, la squadra dell’Armata Rossa, il simbolo sportivo dell’esercito invasore. “Prima della partita ci siamo detti: anche se dobbiamo morire sul ghiaccio, dobbiamo batterli” racconterà Golonka. “Quando siamo arrivati a Stoccolma abbiamo ricevuto centinaia di telegrammi dei nostri tifosi e quasi tutti dicevano: battete i sovietici, è l’unica partita che dovete vincere”[15].

Dopo un primo periodo senza gol, al 13′ del secondo tempo Jan Suchy, che sarà votato miglior difensore del Mondiale, segna la sua quinta rete nel Mondiale. È un forte fumatore, ma a giudicare dalle sue corse leggendarie la sua condizione non ne risente. È il difensore che ha segnato di più nella storia del campionato cecoslovacco, l’unico che sia mai diventato capocannoniere, proprio nella stagione 1968-69.[16]

Il gol di Suchy motiva i cecoslovacchi, l’assist a Josef Černý per il 2-0 scatena la festa. Una festa così perfetta anche grazie a un ex riparatore di frigoriferi slovacco, scartato dallo Slovan Bratislava. È il leggendario Vladimir Dzurilla, il miglior portiere della sua generazione. L’atmosfera si riscalda, il pubblico intona “Dubček, Dubček” dagli spalti. I cecoslovacchi non vanno a stringere la mano agli avversari. Non l’hanno programmato prima[17], nessuno pensa alle conseguenze. “Eravamo giovani, ognuno aveva una certa prospettiva davanti a sé. Nessuno di noi metteva in dubbio che la società sarebbe stata migliore grazie al soffio di novità della Primavera di Praga e di colpo abbiamo visto i carri armati. È stata una delusione enorme, per questo ci siamo comportati così”. Nei ricordi di Suchy, anni dopo, affiora ancora lo stesso dolore, lo stesso desiderio di riscatto di allora.

“Qual è il primo commento degli eroi dopo la vittoria? Finalmente il primo successo per noi da agosto”. Il riferimento del giornalista Thorwald Olsson non potrebbe essere più chiaro. “È una posizione piuttosto naturale per noi, vista la situazione attuale”, commenta Cervenka, il presidente della federazione hockey cecoslovacca.

La situazione spinge duemila persone a scendere a piazza San Venceslao, lì dove tutto era finito. Lo stesso entusiasmo unisce le due anime della nazione. Migliaia di giovani, in gran parte studenti, i primi motori del sogno di Dubček e i primi delusi dalla normalizzazione, scendono in strada anche a Bratislava per una processione spontanea sotto gli appartamenti di Dzurilla e Golonka. Ma non è ancora nulla rispetto a quello che succederà una settimana dopo, per la seconda sfida fra Cecoslovacchia e Urss: lo stadio è tutto esaurito.

Il 28 marzo, c’è tutta la Cecoslovacchia davanti ai televisori. Tutti idealmente alla Johanneshov Arena di Stoccolma, per una partita che non è solo un evento sportivo. Sugli spalti compaiono diversi striscioni anti-sovietici ma per volontà del produttore la televisione svedese non li inquadra. Anche i giocatori danno il loro contributo. Nel 1960, infatti, la nuova costituzione ha modificato la denominazione ufficiale della nazione in Repubblica Socialista di Cecoslovacchia e introdotto nello stemma la stella a cinque punte al posto del tradizionale leone coronato. Ma c’è chi copre la stella sulle maglie con un pezzo di nastro isolante.

Jaroslav Holík dà del “fottuto comunista” al portiere sovietico. Insieme al fratello Jan, che gioca all’ala sinistra, Holik ha cambiato la storia della partita. È suo il gol della vittoria, a meno di dieci minuti dalla fine. “Hanno giocato tutti al 100%”, commenta il tecnico Jaroslav Pitner, e danno anche qualcosa in più per Suchy che ha chiuso in anticipo il torneo con l’indice della mano destra fratturato.

Di nuovo, i cecoslovacchi non stringono la mano agli avversari. “Normalmente è chi perde che stringe la mano a chi vince”, si difende Pitner. “Ognuno risponde per se stesso”, obietta Arkady Chernishev, l’allenatore dell’Urss, “abbiamo vinto sei Mondiali di fila e tutti ci hanno stretto la mano”.  Ai cecoslovacchi basterebbe un pareggio contro la Svezia per il primo titolo mondiale dal 1949.

La vittoria scatena in tutta la Cecoslovacchia un’energia incontenibile. “Spinta da un senso vicario di trionfo, una folla traboccante di entusiasmo si raccoglie a piazza Venceslao. Un tifoso felice regge un cartello con su scritto: Brežnev 3, Dubček 4. La folla canta: Stavolta abbiamo vinto noi. E qualcun altro grida: L’allenatore russo andrà in Siberia”[18].

Milena Vistrakova, l’annunciatrice della tv pubblica cecoslovacca, non contiene l’entusiasmo. “Di norma bevo tè alle erbe ma oggi brinderò con un calice di vino ai nostri giocatori di hockey, perché questa non è solo una vittoria sportiva, è una vittoria morale”. Per queste parole perderà il posto. Vistrakova però racconta il sentimento della nazione. A piazza San Venceslao stavolta si radunano fino a 150 mila persone, che scrivono 4-3 ovunque, sulle vetrine dei negozi, sulle auto, sulle facciate dei palazzi. Le manifestazioni si ripetono in tutta la Cecoslovacchia.[19] “L’aria della sera vibrava al suono della redenzione nazionale”, scrive Skoug. “Non avevo mai visto i cecoslovacchi così felici”[20]. Anche se alla fine del torneo, saranno nuovamente i sovietici a conquistare il settimo titolo mondiale di fila, grazie alla miglior differenza reti nel girone rispetto ai padroni di casa della Svezia.

Quella notte segna però l’inizio della fine. Comincia tutto alle 23.15 quando, riferisce il rapporto del ministro Pelnar, 20-25mila persone si dirigono verso gli uffici della Aeroflot, la compagnia aerea sovietica. In quattromila si piazzano direttamente di fronte all’entrata. Rompono la vetrata principale mentre compare una pattuglia della Squadra di Controllo del Traffico della Polizia Municipale di Praga che invoca rinforzi. Ma al loro arrivo, un gruppo di giovani sta già demolendo l’interno della sede. Gettano in piazza i mobili, i tappeti, le macchine da scrivere, i telefoni. I manifestanti bruciano tutto il materiale promozionale. Secondo una stima indicativa, i danni ammontano a un milione di corone.[21] Dieci poliziotti restano feriti, due dei quali in maniera seria, nell’incidente.

La demolizione della sede dell’Aeroflot a molti, negli anni a venire, sembrerà una provocazione della fazione pro-sovietica per favorire la normalizzazione. È la molla che cambia il volto della leadership del partito cecoslovacco.

Mosca ha ormai perso fiducia nelle possibilità e nella volontà di Dubček di mantenere l’ordine. Il giorno dopo la partita, l’ambasciatore sovietico Stepan Chervenenko incontra il segretario di stato cecoslovacco Václav Pleskot al ministero degli esteri. Le manifestazioni a piazza Venceslao, insiste, erano organizzate e coordinate. Per questo chiede che un rappresentante delle autorità cecoslovacche vada a parlare un tv per evitare che scene dello stesso tipo si ripetano. Il Politburo invia anche una lettera alle autorità cecoslovacche. In caso di ulteriori manifestazioni, “il Partito sovietico sarà costretto a prendere misure effettive” di cui si riserva il diritto di determinare la misura.

Il primo aprile il Ministro della Difesa sovietico, maresciallo Andrei Grechko incontra a Praga Martin Dzur, il suo omologo cecoslovacco. Sarà lui a prendere in mano le indagini sulle proteste di piazza del 28 e 29 marzo, spiega Grechko. Perché quelle azioni, è questa l’opinione del comitato centrale del Pcus, costituiscono un oltraggio, ed è inammissibile che si ripeta. Gli insulti all’Urss e all’amicizia “fra i nostri due Paesi” aggiunge, non avevano niente a che fare con l’hockey, erano dimostrazioni controrivoluzionarie ben organizzate e programmate.[22]

Dubček, isolato anche all’interno del suo partito, è decisamente sulla difensiva quando incontra, il primo aprile, il Presidium del comitato centrale del partito comunista cecoslovacco. “Se continuiamo a fare come stiamo facendo, divideremo il partito dalla gente”, dice. Sostiene il valore dell’autocritica per la mancata unità nel partito. “Per quanto riguarda i rapporti con l’Unione Sovietica, dobbiamo dimostrare loro che il nostro partito fa il suo ruolo in questa nazione. Ma la sua è una posizione debole. Stretto nel dubbio fra soccombere alla volontà di Mosca o soddisfare le aspettative del popolo, vacilla e lascia l’incarico nel giro di un paio di settimane.

Lo sostituisce Gustav Husak. Inizia la normalizzazione, un lungo periodo di silenzio cimiteriale, ricominciano le epurazioni e le censure e un’intera nazione si ripiega su se stessa. “Comincia l’epoca di una rassegnata apatia e di una estesa demoralizzazione, comincia l’opera di una grigia quotidianità totalitario-consumistica”, scriverà Vaclav Havel. “La società era atomizzata, i piccoli centri focali di resistenza vennero annientati, la comunità ingannata e stanca faceva finta di non saper niente di essi, il pensiero indipendente e la creazione si rifugiarono nelle trincee della parte più intima della vita privata”[23].

Finisce così il sogno di una nazione. “Da sola la libertà non vince: quando si scontra con il potere, spesso perde. Vince solo quando un popolo è abbastanza forte da difenderla”.[24]

 

 

[1]    Cfr. D.Volcic, “Alle otto della sera. La primavera di Praga”, Radio 2, puntata 4 andata in onda il 2 maggio 2013

[2]    M.Kundera, Discorso al quarto congresso dell’Unione degli Scrittori Cecoslovacchi, giugno 1967 in D.Hamsik (a cura di), Writers Against Rulers. New York, Vintage Books, 1971, pp.167-181

[3]    However, the rulers in Vienna heard about it ex post and were of course strongly opposed to this idea. Earlier in the same year they managed to force the FIFA to scratch out Bohemia as a member, due to the fact it was not an independent state, but part of the Habsburg monarchy. Vienna knew that it was dangerous to allow Czechs to be in any international sport federation, because it would strengthen their separatist idea. In 1914 the Habsburg rulers also managed to get Bohemia out of the IOC (International Olympic Committee). However, they never managed to get Bohemia out of the IIHF. Thus Bohemia participated under its own flag in several international tournaments, strengthening nationalism at home and recognition abroad.

[4]    S.Stinson, “Soviet Union’s Red Army hockey team was ‘a microcosm of their society’ — and its mentality is echoed in today’s Russia”, National Post, 23 gennaio 2015

[5]    Segnerà 639 gol in 432 partite fra il 1970 e il 1981.

[6]          he inconceivable nickname of Gusta was devised by coach Haukvic during the war in the Dukla of Litoměřice. “He knew I was riding a motorbike and wondered why I left that I could be as famous as Gustav Havel. He started to call me Gusto, and this nickname took place elsewhere, whether in Sparta or Jihlava. ”

[7]    Sarà anche uno dei principali catalizzatori dello sciopero nella stagione 1965-66 al ČKD Praga, per ottenere premi più alti e soprattutto rimuovere l’obbligo dei turni lavoratitvi di quattro ore per i giocatori in una fabbrica dove si producevano barre decorative per locomotive.David Soeldner, “JAN “GUSTA” HAVEL – UPŘENÉ POCTY A STÁVKA O 200 KORUN”, hcsparta.cz

[8]    Si allenava senza casco protettivo, che da quella tragedia diventerà obbligatorio per i sovietici anche in allenamento.

[9]    J.Pellissier, “Josef Golonka”, The hockey history blog, http://internationalhockeylegends.blogspot.it/2009/08/jozef-golonka.html

[11]  “Il padre della patria nato da una tragedia”, Repubblica, 24 maggio 1988

[12]  A questo proposito, tuttavia, Vasil Bilak, che per oltre 40 anni fu membro del Comitato centrale del Partito Comunista della Cecoslovacchia (KSČ), e dal 1968 membro e segretario e del Presidium del Comitato centrale, compare fra i firmatari di una lettera inviata a Brežnev dell’agosto 1968 e consegnata nel 1992 da Boris Yeltsin a Vaclav Havel, il leader della Rivoluzione di Velluto che porta alla fine del comunismo in Cecoslovacchia nel 1989. “Tutti gli strumenti politici e statali sono paralizzati” si legge. “Le forze di destra hanno creato le condizioni per una controrivoluzione. (Solo) con la vostra assistenza il Partito Socialista Cecoslovacco può neutralizzare l’imminente pericolo della controrivoluzione. (…) Noi lotteremo con ogni mezzo e con tutte le nostre forze. Ma se non riusciremo a produrre risultati positivi allora invochiamo il vostro aiuto e la vostra completa assistenza”. Bilak sarà accusato di alto tradimento e continuerà a professarsi innocente, parlando di un possibile falso. Il procedimento però verrà sospeso nel 2011 per insufficienza di prove e successivamente archiviato. Cfr. “Letter from Czech Communist Politicians to Brežnev Requesting Soviet Intervention in Prague Spring,” August, 1968, History and Public Policy Program Digital Archive, Published in Czech in Hospodarske noviny, 17 July 1992. Translated for CWIHP by Mark Kramer; D.Bilefsky, “Vasil Bilak, 96, Dies; Czech Communist Encouraged 1968 Soviet Invasion”, New York Times, 6 febbraio 2014.

[13]  B.Valli, “Jan Palach eroe civile nella Praga di 30 anni fa”, Repubblica, 16 gennaio 1999.

[14]  Un mese dopo, il 25 febbraio 1969, un altro studente, Jan Zajíc, si darà fuoco a piazza San Venceslao. Ad aprile Evžen Plocek seguirà il suo esempio nella città di Jihlava.

[15]  “Two games Czechoslovakia simply couldn’t lose”, IIHF, http://www.iihf.com/iihf-home/the-iihf/100-year-anniversary/100-top-stories/story-18/

[16]  Sarà il miglior difensore anche nel Mondiale 1971 prima dell’incidente che lo cambierà per sempre. Viene giudicato colpevole della morte di un passeggero che viaggiava con lui in auto e condannato da un tribunale militare a 18 mesi di carcere. Sarà liberato prima, segnerà tre reti nella sua prima partita dopo il rilascio ma non sarà più lo stesso.

[17]  Alla fine della partita, dirà l’allenatore Jaroslav Pitner a Jaroslava Gissübelová di Radio Praga nel 2009, i cecoslovacchi non vanno a stringere la mano agli avversari. “Fu una decisione spintanea, perché quello che ci avevano fatto ad agosto aveva creato un male senza precedenti”.

[18]  T.Pinchevsky, Breakaway: From Behind the Iron Curtain to the NHL – The Untold Story of Hockey’s Great Escapes, Wiley, p.7

[19]  A Mladá Boleslav, circa 5mila persone si ritrovano sulla via Lidové Milice, di fronte alla caserma sovietica, cantando slogan come “4:3”, “Siete conigli” o “Fascisti, fascisti”. Lanciano pietre contro i finestrini dei blindati sovietici e i soldati reagiscono con lanci di bottiglie e petardi. Pacifiche le manifestazioni nella Moravia del nord, a Olomouc, Bruntál, Karviná, Nový Bohumín, Frýdek-Místek, Frenštát pod Radhoštěm, Fulnek, Rožnov, dove i manifestanti cantano uno dei cori simbolo di quella serata di rivalsa nazionale: “Sono venuti con i carri armati, ma gli abbiamo segnato quattro gol lo stesso”. Il rapporto elenca venticinque cortei e manifestazioni di giubilo. Spicca, nella dettagliata successione di processioni piccole e grandi che punteggia l’intero territorio, la manifestazione di Plzen con 30mila persone pacificamente in piazza e uno studente che dalla stanza di un dormitorio lancia fuori dalla finestra una bandiera sovietica in fiamme.

[20]  Kenneth N. Skoug, Jr., Czechoslovakia’s Lost Fight for Freedom, 1967-1969: An American Embassy Perspective, Praeger, p.227

[21]  Rapporto sulla visita dell’ambasciatore sovietico Stepan Chervenenko al Ministero degli esteri cecoslovacco, 29 March 1969, in The (Inter-Communist) Cold War on Ice: Soviet-Czechoslovak Ice Hockey Politics, 1967-1969 CWIHP Working Paper #69 , p.40

[22]  Trascrizione della conversazione, Ministro della difesa cecoslovacco Martin Dzúr e Ministro della difesa sovietico Andrei Grechko, Prague, 1 aprile 1969, History and Public Policy Program Digital Archive, VHA, Prague, F. Ministry of National Defense, 1969, 1/8-1, in Antonín Benčík – Jan Paulík – Jindřich Pecka: Vojenské otázky československé reformy 1967-1970, vol. 2; in CWIHP Working Paper #69, “The (Inter-Communist) Cold War on Ice.”

[23]  V.Havel, Interrogatorio a distanza, Garzanti, 1990, p.126

[24]  Heda Margolius Kovály, Sotto una stella crudele, Adelphi, 2017, p.203

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