Comincia a Nanterre quel che chiamiamo maggio francese. E possiamo anche crederci assolti, saremo tutti coinvolti. Vietato vietare, immaginazione al potere, libertà, fratellanza e soprattutto uguaglianza. Lo chiamavano “La Folie” l’enorme spiazzo verde dove c’era l’erba e dal 1965 c’è una città universitaria, senza piazze e senza bar, dove comincia la rivoluzione, che poi è il movimento della Terra intorno a se stessa, è l’eterno ritorno dell’uguale.
Liberi e uguali vogliono essere gli studenti. Non distinti dai professori, sognano un’università senza esami, in cui insieme si decide la strada. Tutti guidati da un tedesco rimasto apolide finché gli è servito per evitare il servizio militare, Daniel Cohn-Bendit, che già diventa Dany il rosso per i capricciosi ricci di fuoco. Ha le idee chiare, vuole cambiare un sistema di insegnamento antico, un piccolo mondo di baroni e rendite di posizione, di avanzamenti automatici di carriera.[1]
La miccia deriva dalla riforma prevista dal ministro dell’educazione Christian Fouchet, un progetto tecnocratico che mira a saldare l’università e il mondo produttivo e non piace a chi frequenta le facoltà umanistiche. Il 22 marzo un gruppo di 200 studenti occupa la Facoltà di lettere a Nanterre. È quello che succede, scrive Le Monde, “quando la Francia si annoia”. Perché la Francia, dice il generale De Gaulle, “non fa le riforme se non sulla scia di una rivoluzione”[2].
Il 3 aprile, vigilia delle vacanze di Pasqua, il ministro dell’istruzione annuncia che dall’autunno del 1968 sarà introdotto il numero chiuso. Dal giorno dell’occupazione della torre dell’edificio amministrativo di Nanterre che “si innalza come simbolo fallico dell’autorità che opprime”[3], il vento della rivoluzione soffia anche lontano da Parigi e accende fuochi di rivolta a Tolosa. È la prima città di provincia attraversata dal ’68, da quel 25 aprile che infiamma l’università, Studenti neri, studenti rossi, lacrimogeni, lanci di pietre. Lo scenario è quello solito, come abituale suona la promessa identitaria del movimento che da quella data prende il nome. “Siamo diverso da tutti i gruppi, le associazioni, i sindacati pre-esistenti. La nostra lotta non si deve confondere con l’anti-gollismo, vogliamo reinventare una nozione più larga di politica”.Il 25 aprile centinaia di studenti occupano l’anfiteatro dell’università di Tolosa. Nell’imponente palazzo anni Trenta si barricano gli appartenenti ai movimenti di sinistra. Stanno tutti ad ascoltare uno dei colleghi di Nanterre che processa l’università napoleonica e chiede la nascita di una “università critica”.[4]
Il fuoco si allarga a tutta la Francia. È un fuoco eversivo, creativo, che irride istituzioni e modelli di comportamento tradizionali. Nei cortei sfilavano ragazze a seno nudo, con berretto frigio in testa e bandiera rossa in mano, caricature di Marianne, icona femminile della “Republique”.
Anche la rivoluzione ha la sua Marianna. È una di quelle ragazze che, come recitava uno slogan sui muri della Sorbona in quel maggio di rivoluzione, hanno preso i loro desideri per realtà perché credevano nella realtà dei propri desideri. Sono realiste, hanno chiesto l’impossibile. Sono i volti della periferia sportiva di un’epoca che in una donna si è rispecchiata, negli occhi di Caroline de Bendern, la modella nata a Windsor. È una fortunata ereditiera “senza opinioni politiche e con tanta voglia di vivere” raccontava al Corriere della Sera[5]. Viaggia in Italia, a New York, è amica di Andy Warhol, ha un flirt con Lou Reed. La famiglia la manda a Vienna per combinare un matrimonio di rango. Caroline però va a Parigi, la sera frequenta pittori, musicisti, intellettuali. C’è anche lei il 13 maggio a place Edmond Rostang, vicino al giardino del Luxembourg . Ha mal di piedi, un amico pittore si offre di portarla sulle spalle. Le passano una bandiera del Vietnam e Caroline si ricorda di essere modella. Ama lo spirito libero e creativo, ha simpatizzato con gli hippie, e si mette in posa. Jean Pierre Rey, il fotografo dell’agenzia Gamma, scatta la foto-simbolo del maggio francese.
Perché è questo il primo motore, prima ancora del pacifismo, dell’anarchismo, della riforma del sapere, del movimento: la rivolta contro i tabù sessuali. Il diritto al potere e il diritto al piacere raccontano le due facce del movimento studentesco che “non è rivendicazione, è contestazione”. Gli studenti vogliono scuotere l’albero”, creare una società per cui valga la pena trovare un posto. E insieme chiedono il diritto all’educazione sessuale, alle esperienze pre-matrimoniali, il diritto per i ragazzi di entrare a ogni ora nei dormitori delle ragazze[6].
La scuola delle Belle Arti di Parigi diventa Atelier popolare. I muri si riempiono di creazione rimaste insuperate. “Amatevi gli uni sugli altri” recita una delle più celebri.”. Il diritto al piacere che esplode alla Sorbona dopo l’occupazione, quando “coppie distese si sollazzavano nei corridoi, godendo sotto gli occhi dei passanti” sotto un cartello di ironica rassicurazione: “Non c’è pericolo, abbiamo la pillola”.[7]
A Tolosa, città inclusiva che ha accolto i rifugiati politici dalla guerra civile di Spagna, le parole diventano mattoni per il muro di una società in cui vivere grazie alle donne. La libertà, l’uguaglianza, la fraternità prendono una forma chiara e una direzione per molti sorprendente. Come tutto il sud-ovest della Francia, è città di rugby. E a rugby, sport maschile e macho per eccellenza, vogliono giocare anche le ragazze, come racconta Emilie Carsalade[8], una delle figure chiave per la creazione dell’associazione rugby femminile. “Il primo club si è sviluppato nella facoltà di scienze di Tolosa, grazie all’impulso di Isabelle Navarro. Nasce senza formalismi, avevamo l’obbligo di allenarci al campo dell’università con un professore di ginnastica imposto”. Emilie ha scoperto il rugby negli anni Sessanta, è una tifosa assidua del FC Lourdes, che proprio nel 1968 vince il campionato per l’ultima volta nella sua storia. Mediano d’apertura è Jean Gachassin, 32 presenze in nazionale, poi diventato presidente, con qualche ombra, della federazione tennis francese.
Il primo maggio una squadra che si presenta col nome di Etudiantes toulousaines, studentesse di Tolosa, gioca il primo match di rugby femminile. Si gioca a Auterive contro Chateaurenard. È un match che serve come ouverture prima dell’incontro più importante di giornata che vede in campo una selezione regionale maschile. Ce n’est qu’un debut, è solo l’inizio, scandiscono gli studenti che il 3 maggio da Nanterre occupano la Sorbona. Durante gli scontri la polizia ne arresta 27, sette vengono condannati per direttissima. De Gaulle denuncia quella “chienlit”, quella carnevalata, prima di partire con la Francia in rivolta per una visita di stato in Romania.
Passa una settimana e la Salle de la Mutualité di Parigi si anima. È un palazzo elegante, art déco, che non a caso prevede 1789 posti a sedere. Qui, dove negli anni ’50 si organizzavano delle improbabili settimane del pensiero marxista, Dany il rosso ha tenuto uno dei suoi primi discorsi da tribuno degli studenti. Qui il 10 maggio si alzano bandiere rosse e nere mentre Leo Ferré, ospite di uno spettacolo di raccolta fondi per il giornale anarchico Le Monde Libertaire, canta per la prima volta Les Anarchistes. “Non son l’uno per cento, ma credetemi esistono / figli di troppo poco o di origine oscura / non li si vede che quando fan paura”. È l’inno degli “irregolari della rivoluzione”, anche di quelli che quella stessa notte fanno rosseggiare il quartiere Latino. È la notte delle barricate, che trascorre fra i gas lacrimogeni e le fiamme delle auto incendiate. La rivoluzione si apre, si salda con le proteste operaie nello sciopero generale del 13 maggio.[9]
La protesta universitaria diventa una miscela che sfugge di mano anche al sindacato più potente di Francia, Cgt, la Cgil francese. La sera del 20, fino a oltre mezzanotte, gli studenti si arrampicano sulle spalle delle statue del cardinale Richelieu e Robert de Sorbon, si siedono sulle ginocchia di Blaise Pascal e René Descartes per ascoltare Cohn Bendit e Jean-Paul Sartre. “Avete un’immaginazione limitata come il resto del mondo” dice Sartre al fondatore del movimento, “ma avete molte più idee dei vostri compagni”[10].
Il 21 sette milioni di persone scioperano per tutta la Francia. La protesta diventa fenomeno sociale e di costume, si fonde con l’esperienza femminista. Si salda non solo nella figura di Dany, che all’università invano tentava di corteggiare la futura moglie di Jean-Luc Godard e chiedeva la cancellazione degli esami per evitare “frustrazioni sessuali”. Si salda anche nello sport.
Annie Bannier ha vissuto la rivoluzione del rugby a Pau, “la più bella veduta di terra come Napoli è la più bella veduta di mare” scriveva il poeta Lamartine. “Le ragazze ‘osano’ affermarsi, osano entrare in domini tipicamente maschili come lo sport e il rugby, la disciplina regina nel sud della Francia” racconta[11]. “Qui in ogni famiglia c’è un padre, un fratello, un cugino, uno zio che giocano, e i familiari fanno il tifo: ragazze comprese”. Le atlete non vogliono cambiare le regole, anzi, vogliono rispettarle e giocare al meglio.
Le reticenze, però, non mancano. Il Ministro della gioventù e dello sport, mi racconta ancora Bannier, “aveva firmato una circolare in cui si diceva che questa disciplina era ancora troppo contestata dagli specialisti e per questo rifiutava alle rugbiste l’accesso all’insegnamento dell’educazione fisica”. Si oppone anche la Federazione francese di rugby, che non vuole vedere le donne praticare uno sport maschile. Ancora nel 1975 il presidente della federazione sosterrà che questa pratica diffusa fra le donne possa mettere in pericolo la coesione familiare. Il segretario per la Gioventù e lo Sport del dipartimento Pyrénées Atlantiques dell’epoca è convinto che “le ragazze giocano a rugby solo per far vedere le cosce”. Lo dice a Bantier, che gli risponde a tono. “La nostra divisa tiene coperte le braccia, le spalle, le cosce, le ginocchia. Si vedono solo le ginocchia!”.
Cercare di affermarsi in uno sport tipicamente maschile, mi spiega Bannier, “non era una ricerca di uguaglianza. Non era qusto il nostro obiettivo, anche se tanti uomini ci contestavano. La nostra prima motivazione era giocare a rugby. Era come una reazione d’attualità. In quel periodo il Paese ha rotto tutta una serie di codici, e affrontare la vita con una nuova libertà era esaltante. Credevamo in noi e ci siamo battute contro un ambiente maschilista perché la nostra pratica sportiva fosse riconosciuta. Ci eravamo date un regolamento interno: l’aspetto più importante era il rispetto delle regole del rugby senza sacrificare la femmiilità. Alcune delle ragazze, per esempio, entravano in campo naturalmente truccate e tirare i capelli poteva comportare la sospensione della partita”.
Bannier partecipa all’organizzazione di un’associazione, Loi 1901, per arrivare a una definizione più seria del rugby femminile[12]. Con lei ci sono due “donne appassionate e coraggiose”, ci ricorda, “che avevano caratteri diversi ma lo stesso obiettivo”. Ci sono Isabelle Navarro e Odette Militon, che porta il rugby femminile a Tarbes, che ha un’antica tradizione di uguaglianza e femminismo. Qui infatti già 1850, molto prima delle leggy Ferry che imposero a tutti i sindaci di aprire scuole pubbliche nel 1882, veniva aperta una scuola normale per le ragazze e all’alba degli anni Trenta si costituiva una scuola pratica per il commercio e l’industria. Oggi, in quello stesso palazzo dalla facciata curva e con le vetrate a specchio, un tempo sede della cappella dei Padri della Grotta, c’è il conservatorio di musica.
E a quei sogni in fondo al cuore hanno dato forma, concretezza, valore. Hanno creato le squadre per essere prese sul serio. “Abbiamo giocato diverse partite contro gruppi effimeri di altre facoltà” mi racconta Carsalade, “poi nel 1969 abbiamo costituito un club totalmente indipendente da quello maschile, il Toulose Femina Sports. Ci siamo confrontati con il sindaco per poter disporre di campi di allenamento due sere a settimana. Il club era piccolo, le giocatrici erano anche dirigenti, non c’erano risorse e il gioco balbuziente. Le critiche che sentivamo dai bordi del campo erano spesso volgari, le prese in giro erano pesanti”. Ma la battaglia va avanti e l’amicizia diventa una seconda famiglia, un legame a vita.
Essere una rugbista, mi spiega Carsalade, “voleva dire sfidare le convenzioni e affermare la nostra identità”. Così proprio a Tolosa nasce l’Association Française de Rugby Féminin (AFRF). È il 25 ottobre 1969: il Rubicone è passato. Il 4 marzo 1970 viene approvato lo statuto. L’associazione raccoglie dodici delle trenta squadre che esistevano allora in Francia: Tarbes, Pau, Villemur, Béziers, Châteaurenard, Bourg-en-Bresse, Toulouse, Freneuse, Paris, Carqueiranne, Bagnères-de-Bigorre et Carmaux.
Nascono così il campionato e la coppa nazionale. Le ragazze ottengono un primo importante successo, la copertura assicurativa attraverso la compagnia La Providence, nomen omen. La rappresenta Jean Gachassin, ed è un altro fattore provvidenziale. La strada è segnata ma servirà un cambio di visione nella federazione perché porti al traguardo. Dovranno passare una decina d’anni.
È il settembre del 1979. Bannier è tra le giocatrici che vanno a Parigi per incontrare il presidente Albert Ferrasse. “Quando siamo arrivate, c’erano quattro uomini ad aspettarci. Uno di loro ci ha comunicato che Ferrasse non c’era e che avremmo dovuto parlare con lui. Gli altri sorridevano” mi racconta. “Gli abbiamo mostrato diversi documenti: la lista dei club, i documenti che riguardavano la nostra pratica nel rispetto delle regole, gli articoli della stampa francese che parlavano di noi, in termini non sempre lusinghieri. Ma soprattutto gli abbiamo mostrato la lista dei piccoli club maschili che avevano potuto ripartire per una stagione, non essendo aiutati dalla federazione, grazie agli introiti delle partite femminili. E gli abbiamo dato i riferimenti di un giovane rugbista che aveva potuto beneficiare, dopo una lesione in campo, di un rene artificiale pagato dalle ragazze. A quel punto, il rappresentante del presidente Ferasse non sorrideva più”.
Il tempo prende velocità. Dopo il riconoscimento della federazione arriverà quello del Ministero della Gioventù e dello Sport, nel 1984, che comporterà anche la possibilità di sovvenzioni pubbliche. Quello stesso anno, l’AFRF diventa FFRF (Fédération Française de Rugby Féminin), tappa intermedia verso l’integrazione all’interno della federazione, in un altro anno di rivoluzioni e barriere che cadono, il 1989”.
E tutto iniziò con un desiderio semplice. Ma la posta in gioco, conclude Bannier, “era incredibile: la possibilità di giocare a rugby. Una pratica femminile o femminista?”. Uno sport per tutti.
[1]
R.Mazuy, D.Le Cornu, “Chronologie des événements à Nanterre en 1967-1968£. In: Matériaux pour l’histoire de notre temps, n°11-13, 1988. Mai-68 : Les mouvements étudiants en France et dans le monde. pp. 133-135; http://www.persee.fr/doc/mat_0769-3206_1988_num_11_1_403843
[2] R.Aron, La rivoluzione introvabile, Rubbettino, 2008, pp.26-27
[3] G.Dreyfus-Armand, D.Cohn-Bendit, “Le mouvement du 22 mars. Entretien avec Daniel Cohn-Bendit”. In: Matériaux pour l’histoire de notre temps, n°11-13, 1988. Mai-68 : Les mouvements étudiants en France et dans le monde. pp.124-129; http://www.persee.fr/doc/mat_0769-3206_1988_num_11_1_403840
[4] J.Godechot, “1968 à la Faculté des Lettres de Toulouse”, In: Annales du Midi : revue archéologique, historique et philologique de la France méridionale, Tomo 90, N°138-139, 1978. Hommage à Philippe Wolff. pp. 473-496
[5] M.Nava, «Divenni la Marianna del ’68. Oggi le modelle vanno a destra», Corriere della Sera, 25 gennaio 2008
[6] Epistemon, Le idee che hanno fatto tremare la Francia. Nanterre, novembre 1967-giugno 1968, Il Saggiatore, 1968, p.56-59
[7] P.Brogi, ’68. Ce n’est qu’un debut… Storie di un mondo in rivolta, Imprimatur, 2018, pp.169-178
[8] Intervista concessa all’autore.
[9] A.Wiazemsky, “Io, Godard e il Maggio francese”, Micromega 1/2018
[10] “L’imagination au pouvoir”, une interview de Daniel Cohn-Bendit par Jean-Paul Sartre, Le Nouvel Observateur, 20 maggio 1968
[11] Intervista concessa all’autore
[12] B.Chubilleau, La grande histoire du rugby au féminin, La Lauze, 2007
Redazione
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