Ci fu un tempo nel quale venne scoperto un nuovo luogo, senza limiti di territorio ma dalle caratteristiche intriganti. Il nome lo concertarono gli sportivi, molto probabilmente i giornalisti e i tifosi, per una volta tanto d’accordo: Zemanlandia. Il capoluogo era Foggia, città dove operava quale allenatore della locale squadra di calcio, Zdenek Zeman: un boemo che durante i tempi bui vissuti dal suo Paese, ebbe la fortuna di avere uno zio materno, Cestmir Vycpalek, prima calciatore della Juventus e poi allenatore del Palermo.
A metà anni Sessanta il nipote andò a conoscere e salutare il fratello della madre, anche per evitare di vivere nel suo Paese quel periodo che abbiamo definito buio. E così, dopo un primo contatto e un breve ritorno a casa, Zeman si trasferì stabilmente in Italia, dove per guadagnarsi da vivere, scelse di fare l’allenatore di calcio, prendendo a Coverciano il patentino di Prima Categoria.
Di tutto il seguito trattano esaurientemente Massimo Palombella e Francesco Spaziani Testa in “Zemanologia”, opera che riassume quasi fino ai giorni d’oggi la variegata carriera del boemo, da qualcuno soprannominato “U mutu” per la sua caratteristica di ridurre all’essenziale il suo dire.
Molte tappe della sua carriera di mister sono state criticate, osteggiate, svilite. Basti pensare alla definizione che di lui forniscono i suoi detrattori (e sono tanti, quasi quanti sono i suoi ammiratori): il Mister che non ha mai vinto niente, come se un Campionato di serie C2 e due Campionati di Serie B con relative promozione nella categoria superiore, non contassero sportivamente parlando nulla.
E come se non avesse valore il particolare che numerosissimi giocatori, prevalentemente attaccanti, sono stati da lui lanciati e poi arrivati fino alla Nazionale, come – tanto per fare qualche nome – Signori, Schillaci, Di Francesco, Tommasi, Immobile, Insigne per finire con quel Verratti che molto probabilmente diventerà il playmaker fisso della Nazionale. Non tralasciando Totti, maturato completamente sotto la guida del Boemo, che interrogato da un giornalista su quali fossero a suo giudizio i migliori cinque giocatori italiani, rispose incisivamente “Totti, Totti, Totti, Totti e Totti”.
Quanto a frasi, quella di Moggi riportata in Zemanologia “La verità è che questo (Zeman n.d.r.) non sa allenare. È lento e impacciato nel parlare. I giocatori non lo capiscono. Come parla, così allena”, fa il paio con quella di John Elkann (“in una partita, Carrera ha vinto più di Zeman in tutta la sua carriera”) dopo una finale di Coppa Italia, in cui Carrera da vice aveva sostituito Conte squalificato. A dimostrare che i rapporti tra Juventus e Zeman non erano idilliaci, dai tempi delle accuse di abuso di farmaci e doping.
E qui è il caso di ricordare un episodio emblematico. È il 15 novembre 1998. La Roma di Zeman ospita la Juventus all’Olimpico. La gara è combattuta alla morte. Il boemo la fa disputare interamente ai soli undici giocatori schierati al fischio d’inizio, mentre la Juventus opera le tre sostituzioni. Un giocatore dei tre, uscendo dal campo, apostrofa Zeman con la solita accusa: “Anche se oggi vinci (e infatti la partita viene vinta dalla Roma 2-0), non hai mai vinto niente.” “U mutu” tiene fede al suo soprannome e non replica. Ma mai silenzio fu tanto assordante. Lo schiaffo morale che sottolineava l’efficacia dei suoi metodi di allenamento sia sul fisico che sul morale dei suoi giocatori, aveva còlto nel segno.
Mediamente, la sue squadre marcano un paio di gol a partita. Ma nell’ultimo anno, paradossalmente, il boemo ha perso con il suo Lugano la finale di Coppa Svizzera – e sarebbe stato il suo primo titolo fuori dall’ Italia – contro lo Zurigo… per 1 a 0.
Questo è Zeman. Un uomo che ha amato il calcio come pochi. E come spesso succede, senza esserne ripagato.
Pier Francesco Pompei
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