Federico Mastrolilli è il fondatore (con un gruppo di amici) del blog di scritture calcistiche Lacrime di Borghetti. Ha pubblicato nel 2010 una strana biografia (“Mourinho immaginario. Un’educazione sentimentale”, con le illustrazioni del suo grande amico Ricardo Cavolo). Per la nostra casa editrice ha curato nel 2015 la raccolta di racconti collettiva “Memorie dell’Europa calcistica. L’Erasmus del pallone”. Da poche settimane è uscito “Olio di canfora”.
Con “Olio di canfora” i tuoi Europei sono iniziati venerdì a Milano e proseguiranno ben oltre il 10 luglio…
L’inizio è stato scoppiettante, sono stato travolto dall’affetto degli amici milanesi, il lato umano di Twitter. E’ stato anche emozionante ritrovarsi fisicamente dentro la festa di Radio Popolare, dopo aver collaborato dal mio salotto per tutto l’anno. Domani (giovedì) facciamo un bel book signing a Roma, ai Parioli ovviamente, dove si può dire che il libro è ambientato (nonostante tutti i viaggi…); ma seguiranno anche altri eventi romani. Il 17 luglio sarò invece sul lungomare adriatico di San Vito Chietino, ospite nella rassegna letteraria curata da Marzio Maria Cimini, amico storico nonché il più illustre docente italiano di Abruzzesologia. Poi viene il turno delle presentazioni europee, tutte rigorosamente in lingua originale: a fine luglio ad Helsinki (seguiranno dettagli), mentre a settembre faremo un piccolo book-tour catalano.
Hai scritto un racconto su 23 squadre partecipanti a Euro2016. La 24esima ha chance di vincere il titolo?
No, non credo. E non è solo scaramanzia. All’Italia riconosco però il pregio di essere ancora espressione di una scuola calcistica nazionale, al pari – sul versante opposto dello spettro calcistico – della Spagna. Islanda (che teorizza un gioco senza uso dei piedi) e Portogallo (che ne teorizza invece senza gol) sono le rispettive rispettabilissime radicalizzazioni. Le altre venti squadre giocano invece, ognuna secondo i mezzi a disposizione, un calcio meticcio di difficile collocazione geografica, le grandi (Francia, Inghilterra, Belgio) sono un continuo vorrei ma non posso, altre (la Germania) sono un penoso tentativo di imitazione dello stile iberico (ma perché poi?), le medie-piccole, infine, si concentrano su personalissime variazioni del nostro catenaccio, anche se oggi si chiama contrattacco o ripartenza o transizione o quello che è. Da questo mazzo salvo solo la Croazia, squadra creativa e irriducibile ad ogni etichetta, la mia personalissima favorita.
Qual è il paese dei 23 a cui sei più affezionato? E quello che calcisticamente preferisci?
Naturalmente la Spagna, il paese in cui trascorro i miei giorni più piacevoli. Potrei scrivere un intero libro canforato di ricordi calcistici spagnoli. A livello di stile però il tiki-taka mi annoia parecchio; ne apprezzo alcuni elementi, di cui parlo anche nel nostro libro, come la pazienza nel cercare il varco giusto e il gusto per muovere continuamente il pallone, ma non mi convince il narcisismo, ultimamente anche sterile, di fondo. Manca dramma al calcio spagnolo, come d’altronde anche alla sua società. Sarebbe bello se riscoprissero, nel calcio, un po’ di quel paganesimo che caratterizzava il rito principale della festa spagnola, fino proprio all’avvento del pallone: i tori. Solo Iniesta mi pare salvare questa tradizione, con la sua capacità di diventare invisibile, puro spirito, infilando le difese avversarie con una stoccata perfetta dopo averle fatte ammattire con i movimenti di muleta.
Nei tuoi due libri per Edizioni inContropiede (Memorie dell’Europa calcistica –L’Erasmus del pallone e Olio di canfora) c’è sempre molta Europa. Il calcio è dunque anche geografia?
Bella domanda. Sicuramente non geografia intesa come la materia statica che ci facevano studiare a scuola, ma come la geography delle facoltà inglesi: territorio, uomini, culture. Nei nostri due libri però è soprattutto una geografia personale, in Europa Calcistica quella di ogni singolo autore, in Olio di Canfora la mia (ma con pretese di essere anche un po’ generazionale); sono mappe immaginarie, fantasie di viaggi, sogni appuntati su taccuini di viaggio. Ogni paese si riduce a un’immagine, una cartolina, un tatuaggio; sono le tracce che ha lasciato nella nostra biografia. L’Europa, nella sua declinazione calcistica, diventa allora più che altro lo sfondo per raccontare una storia più ampia: la nostra, ovvero i trentenni che in un’Europa più o meno unita, e comunque pacifica, sono cresciuti, hanno viaggiato, ne hanno conosciuto – e ne hanno immaginato – i luoghi attraverso le squadre di calcio. Per quanto possiamo provarci, non riusciremo mai a uscire dell’Europa.
Redazione
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