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“Il calciatore stanco”, di Gino Franchetti (estratto) 

Quando gli toccò il colpo di fortuna, verso la fine di un tormentato cammino, tutti furono concordi nel dire che si trattava di “un grosso traguardo, indubbiamente non meritato”. Ne avevano tanti, in società, che avevano lavorato sodo e in umiltà, mostrando di avere qualità umane che li avrebbero portati più lontano, nel mestiere di calciatore, di dove potesse mai arrivare quel sedicenne svogliato e lunatico con la puzza sotto il naso. Del resto lui il traguardo, a quanto pareva, nemmeno se l’era mai posto. Vivacchiava senza impegno, si lasciava scorrere addosso elogi e reprimende senza l’ombra di un’emozione, come se fosse la stessa cosa, per lui, ciondolare per il campo del tutto inutile o risolvere una partita con uno dei suoi colpi di genio.

Davvero non si sapeva bene come prenderlo. Avevano provato a lusingarlo, a prospettargli premi e promozioni, a fargli intravvedere la possibilità di essere chiamato nel settore giovanile di questa o quella grande società. Lui aveva dato il meglio di sé per un paio di settimane al massimo, senza affaticarsi troppo, beninteso, perché quello, lo avevano capito tutti, era un limite che non avrebbe mai potuto cancellare. Quando gli veniva l’ispirazione, certo, era bello vederlo giocare: faceva cose che nessun altro nella sua squadra si sarebbe mai sognato di tentare e invece a lui quasi sempre riuscivano. Non è che giocasse molto per la squadra: la sua tendenza era di dare la palla agli altri solo quando proprio non poteva farne a meno. Però che giocate, gente! A vederlo in una di quelle sue giornate di grazia, non si poteva non riconoscere che averlo nei ranghi era una benedizione del Cielo.

Ma dopo, quando il momento favorevole era passato, averlo o non averlo era esattamente la stessa cosa. Anzi, con lui in squadra si giocava dieci contro undici, ed erano pochi, nell’ambiente, quelli che seriamente erano disposti ad avallare la famosa battuta di almeno due grandi maestri (Gipo Viani? Nils Liedholm?), secondo cui “in dieci si gioca meglio”, senza considerarla per quello che probabilmente era, niente di più cioè di una battuta, appunto. Insomma, in tempi oltretutto di tatticismo imperante, nei sogni di ogni allenatore c’era piuttosto la possibilità di schierare un uomo in più, perché a centrocampo soprattutto mancava sempre un puntello indispensabile. Ed è per questo che alla seconda delusione il genio del pallone finiva fuori squadra a meditare un po’ sul peso della propria incostanza.

Non era stato così il giorno del suo arrivo. Quel bambinetto dal fisico ancora incompleto aveva dato spettacolo al primo contatto con la nuova squadra e non era stato difficile credere in tutto e per tutto a quello che raccontava suo padre, il signor Elmo. Di come, dov’era prima, la dirigenza lasciasse a desiderare, a tal punto da permettere che alla guida di una squadra di valore si installasse per dare sfogo ai propri vizi un noto pederasta; cosicché a lui, padre attento, e a tanti altri come lui non era rimasto altro da fare che prendere il suo ragazzo e portarlo altrove, con tutti i problemi connessi al cambio di società nel bel mezzo della stagione agonistica.

Lo avevano tesserato, dunque, facendo capire a entrambi, padre e figlio, che per il momento il ragazzo sarebbe stato considerato alla stregua di un allievo, uno cioè che era lì per imparare e al quale si poteva concedere al massimo di non pagare una quota, ma più avanti, dopo un anno o due, magari gli avrebbero dato qualcosa, se non proprio una paga almeno dei premi partita. Sempre che, naturalmente, avesse continuato a comportarsi bene.

Ecco, il punto era quello, purtroppo: che nemmeno il signor Elmo, con tutta la sua fede incrollabile, sarebbe stato in grado di garantire onestamente che quel suo figlio talentuoso sarebbe stato sempre all’altezza delle proprie possibilità. Chi poteva dirlo? Lo aveva visto altre volte che, all’improvviso spegnersi dello stato di grazia, il presunto fuoriclasse diventava un altro, del tutto irriconoscibile. Fatto sta che, se anno dopo anno la nuova società aveva deciso di rinnovargli la tessera, era solo per quel che si era visto, di tanto in tanto, e per la passione, oltre che per l’infinita pazienza, di un sant’uomo che aveva il ruolo di direttore tecnico e di coordinatore di tutti gli allenatori.

Per lui, Giacomo Conti, quella era una missione vera: prendere dei piccoli calciatori e farli crescere bene, senza troppo preoccuparsi se un giorno, alla fine della scuola, sarebbero diventati operai o bancari o negozianti invece che calciatori professionisti; o se un bambinetto robusto e un poco obeso, piazzato per quello tra i pali della porta con l’incarico di fermare la palla possibilmente con le mani, nel suo sviluppo sarebbe rimasto tale e quale anziché trasformarsi in un gigante capace di parare davvero. Più il signor Conti si mostrava paziente e comprensivo, più Giorgio l’indecifrabile pareva divertirsi a deluderlo e a provocarlo. Quanto più quello gli lanciava occhiatacce fiammeggianti di sdegno, tanto più Giorgio si lasciava nascere sulle labbra un sorrisetto beffardo, come a dire: Io sono questo che vedi, cambiami tu se puoi.

Finché il presidente non gli fece l’alto onore di convocarlo nel proprio ufficio. “Buon giorno, dottor Franchi”, disse lui con l’aria più serena e innocente possibile; ma una sbirciatina allo sguardo truce del disperato Conti che sedeva accanto alla scrivania del gran capo gli fece capire che c’era poco da stare allegri. Il presidente aveva lo stesso cognome del presidentissimo Artemio Franchi, potente in Italia e in Europa, seppure non ancora numero uno al mondo. “Ma non abbiamo legami di parentela”, si affrettava a precisare con finta modestia.

“Vorrei poterti augurare anch’io una buona giornata, ragazzo – gli rispose -, ma mi piacerebbe sapere che cosa speri di ottenere tu dalla vita. Perché non puoi certo pensare, alla tua età, che tutto ti sia dovuto. Tu devi sudare e faticare come gli altri, devi dare qualcosa ogni volta che tocca a te giocare, perché il campionato non si risolve in una sola partita e la tua vita non durerà, mi auguro, un solo campionato. O credi di poter fare la professione del bel giovane?”.

Questa storia del “bel giovane” non l’aveva capita, a dire il vero. Sì, riteneva di essere piacente: bruno, riccioluto, fisico agile ma possente, un atteggiamento da scettico navigato che con le ragazzine cominciava a giovargli. Ma che cosa aveva a che fare questo col calcio? Glielo avrebbero spiegato poi, in società. C’era un allenatore famoso, Nereo Rocco, triestino, che definiva “de profesiòn bel zòvene” chi fra i suoi giocatori dava l’idea di specchiarsi troppo in se stesso dimenticando che il successo non poteva che venire dal sacrificio, spesso anzi dalla sofferenza.

Diceva questo, per esempio, di Nello Santin, giovane difensore milanista, specie dopo che in Germania, sul campo del Monaco 1860, gli aveva fatto perdere una partita secondo lui per eccesso di supponenza. A quanto pare il Santin era già in grado di controllare il pallone, ma il centravanti bavarese, un bestione tutto muscoli, glielo aveva tolto arrivandogli addosso con la leggerezza di un bisonte e l’aveva infilato in rete. Commettendo un fallo, probabilmente, che però l’arbitro non aveva rilevato. E alla fine si sentiva Rocco detto ”el paròn” urlare come all’ortomercato: “El fazèva anca l’offeso, lù. Come? Te me gà spinto a mi, zogadòr del Milan? E intanto quello andava a far gol, mòna d’un mòna!”.

Insomma, per quanto lo riguardava il paragone era anche appropriato, ma la cosa non l’avrebbe scosso più di tanto. Riuscì a smuoverlo, il presidente, toccando un altro tasto. Lo vedeva anche lui, infatti, che certe domeniche il loro centro sportivo sembrava un porto di mare. Lo frequentavano, per assistere all’una o all’altra partita, certi ex giocatori anche molto noti, che si mischiavano con altri che noti non lo erano per niente e pure li conoscevano. Ed era tutto un parlare fra loro durante le partite, prima che la giornata si concludesse con strette di mano, abbracci e pacche sulle spalle. Alcuni dei poco noti poi si rivedevano nel corso della settimana, ed era a quelli che si doveva dunque prestare attenzione, perché attraverso le loro conoscenze altolocate, vere o millantate, un ragazzo poteva sperare di trovarsi prima o poi in una grande squadra davvero.

“Questi vengono magari per vedere te – diceva il “dottor Franchi” -, mettiamo che sia così anche se non è vero. Perché qualcuno che ti ha visto in un giorno buono ha detto loro che valeva la pena seguirti. Vengono e cosa vedono? Un lavativo che si trascina per il campo o sta a guardare la palla che va da una parte all’altra come se la faccenda non lo riguardasse, come se fosse capitato lì per caso. Che cosa può accadere, allora? Intanto che l’osservatore venuto per te se ne va convinto che la segnalazione fosse sbagliata. Poi che ci fa una figuraccia quello che ti aveva segnalato e perciò la volta dopo non ci casca più, anche se per miracolo ti sei rimesso a far faville; e anche se ci ricasca, se prova a segnalarti un’altra volta, magari cambiando giro, ormai non gli credono più, perché le voci corrono, e finisce che a te non ti vuole più nessuno”.

Lui allora aveva visto il buon Conti che quasi si metteva a piangere e un po’ si era pure commosso. E aveva pensato a suo padre, che in fondo era come il Conti, uno che era entusiasta di lui e gli voleva bene e non voleva che mostrasse il peggio di sé ma sempre il meglio. Al presidente aveva detto che si sarebbe sforzato e che quello doveva bastargli perché è vero o no che quel che conta è la buona volontà? E il presidente aveva sospirato, poco convinto, e il buongiorno comunque glielo aveva restituito.

Poi aveva fatto quel che c’era da aspettarsi. Aveva preso in mano la squadra per un paio di partite, giocando a tutto campo, col piglio del vero leader, trasmettendo a tutti la propria ispirazione e la propria fantasia, chiamandoli a partecipare ad azioni perentorie, spesso inarrestabili, portando con i suoi assist e i suoi gol un gruppo di ragazzi già buono a guadagnarsi il primo posto in classifica. Ovvio che poi tornava a rilassarsi, com’era nella sua natura, per la disperazione di tutti, compagni, allenatori, dirigenti e anche del signor Elmo, che pure a quel susseguirsi di docce scozzesi doveva aver fatto l’abitudine da tempo.

Per fortuna nelle grandi occasioni riappariva in tutto il proprio fulgore tecnico-agonistico, facendo nascere in molti il dubbio che ci fosse in tutto questo qualcosa di studiato: il lazzarone sapeva bene quando era opportuno far bella figura e quando invece contava poco o niente. Insomma, arrivarono alla semifinale nazionale della categoria in una situazione di totale incertezza, perché nessuno sarebbe stato in grado di prevedere se il “fenomeno”, una volta messo in campo, sarebbe stato la carta vincente o la causa di una disfatta. Del resto nemmeno lui, se gli avessero affidato la scelta, avrebbe saputo se puntare su se stesso oppure no. Un rebus.

L’ispirazione l’aveva avuta Conti: il ragazzo i mezzi li ha, se riusciamo a fargli avvertire l’importanza dell’occasione può darsi che ci stupisca tutti, come d’altra parte pare abbia sempre fatto nei provini. E così l’avevano schierato dall’inizio, ed era stata un’apoteosi. In certi momenti della partita sembrava quasi un altro, tanto pareva in possesso di una forza atletica che non gli era mai appartenuta. Aveva sempre saputo che cosa significava quella maglia numero 10 che gli davano di solito: lui era un fantasista, più simile a un uomo di punta che a un centrocampista, uno che doveva preoccuparsi quasi esclusivamente dell’attacco. Ma quel giorno era stato tutto diverso.

Guarda che non c’è alcun particolare accorgimento tattico – gli avevano detto -, quindi se non arretri anche tu a centrocampo siamo con un uomo in meno e rischiamo grosso. E lui non aveva avuto nulla da eccepire: aveva svolto il proprio compito. Anzi, aveva fatto di più. A palla conquistata, ogni volta aveva rovesciato l’azione in avanti non rinunciando a parteciparvi di persona. Si era fatto vedere sempre smarcato al momento giusto. Aveva ricevuto spesso il pallone da compagni che finalmente potevano fidarsi di lui e ne aveva tratto il massimo vantaggio: cinque gol personali, una prestazione splendida, una finale ottenuta con un clamore mai visto.

Ecco perché alla fine si era trovato ben oltre quel traguardo “non meritato”. Molti osservatori erano presenti allo stadio, molti altri avevano poi letto della sua impresa e non avevano potuto fare a meno di chiedere informazioni; qualche grossa società aveva chiesto e ottenuto il filmato della partita. Insomma, lui non aveva barato e come logica conseguenza si era scatenata l’asta che lo aveva infine avviato, con piena soddisfazione anche del club del “dottor Franchi”, verso il mondo del calcio professionistico.

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Gino Franchetti

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