Nato il 4 luglio. E potrebbe bastare. Ma Giampiero Boniperti, splendido novantenne, è la Juventus, ne incarna la storia ed il sentimento, tant’è vero che quando, in occasione del centenario del club fu chiesto all’avvocato Agnelli chi fosse stato il giocatore più juventino di sempre, la sua risposta arrivò senza esitazioni: “Nessun dubbio, Boniperti”. L’ho conosciuto all’inizio del 1980, ero a Torino da qualche mese, il capo della redazione del Corriere dello sport, Salvatore Lo Presti, siciliano, simpatizzante granata (“Come tutti quelli della mia generazione, siamo cresciuti con il Grande Torino”), abile diplomatico e profondo conoscitore del calcio, aveva preso tempo: “Ti porterò da lui, prima fatti conoscere attraverso il giornale”. In effetti, seguivo soprattutto il Toro, ma alla domenica facevo gli spogliatoi della Juve. Una volta, dopo un successo bianconero contro il Cagliari, raccolsi lo sfogo di un attaccante sardo, Piras, che lamentava un fallaccio subito da Verza, una delle giovani promesse (non mantenute). “Poteva spaccarmi una gamba”, il titolo a nove colonne sormontava il mio pezzo. Alla Juve non gradirono, Lo Presti mi riferì che, secondo i dirigenti, sarebbe stato meglio raccontare la stessa vicenda con più garbo. “Non fare il bombarolo”, fu l’avvertimento di altri colleghi.
Passò qualche settimana e finalmente conobbi Boniperti. Gli strinsi la mano nel suo studio in fondo al corridoio nella sede di Galleria San Federico, il salotto di Torino. Sulla scrivania, in bella mostra, c’era un portapenne orizzontale con due palline gialle ai lati. Ed una scritta inequivocabile: si prega di non farle girare. Era riferito agli interlocutori. Tutti. Fu comunque un’emozione fortissima, Boniperti aveva vinto tutto con la Juve da calciatore, e da presidente aveva già dimostrato un’abilità straordinaria, soprattutto nella scelta degli uomini, da Picchi a Vycpalek, fino a Trapattoni, da Capello a Brady, fino a Del Piero. Fu molto gentile, capii subito di essere di fronte ad una persona dura, concreta, ma molto leale. Un innamorato della Juve, con un senso di protezione assoluta, che si scontrava com’era naturale con le esigenze del giornalismo e poi delle tv.
Quando scoppiò il primo grande scandalo delle scommesse, con la Juve accusata di combine per il pareggio di Bologna dalla coppia Trinca-Cruciani – ristoratore il primo, commerciante il secondo – Boniperti mi sembrò molto addolorato. Riuscì a tirar fuori dal processo la Juve, ed un giorno incrociando Rivera, appena diventato dirigente del Milan, pesantemente coinvolto nella brutta storia e poi condannato alla serie B per illecito sportivo, gli sentii sibilare tra i denti questa frase: “Se c’era Rocco, non sarebbe successo…”. Voleva dire, Boniperti, che il suo calcio era quello di Rocco, il grandissimo allenatore del Milan, che era morto un anno prima. Il suo calcio era fatto di gol e di botte, ma poi tutto finiva al fischio dell’arbitro. E si poteva persino bere un bicchiere di vino insieme, alla maniera degli inglesi. Sì, perché Boniperti aveva una sincera ammirazione per il football britannico, per il coraggio, l’altruismo, la determinazione, ma soprattutto per il modo in cui veniva vissuto, chiudendo ogni contenzioso con la conclusione del match.
In più di settant’anni di Juve, dal settore giovanile alla meritatissima pensione, Boniperti ha attraversato trionfi e delusioni, i quattordici scudetti, tutte le coppe internazionali, ma ha dovuto sopportare il dolore terribile dell’Heysel e della morte, a soli trentasei anni, di Scirea, uno dei calciatori ai quali era più legato. In quell’occasione l’ho visto piegato su se stesso, disfatto dalla tragedia: era stato lui ad insistere con Scirea, il vice Zoff, affinché andasse a rivedere il Gornik, di cui sapeva già tutto, la squadra polacca che la Juve avrebbe affrontato pochi giorni dopo nel primo turno della coppa Uefa.
Quando la rivoluzione imposta da Umberto Agnelli nella gestione della società lo ha emarginato dal ponte di comando per far spazio alla coppia Giraudo-Moggi, la sua juventinità non è stata scalfita. La retrocessione in serie B dopo Calciopoli lo ha ferito, ma non ha abbattuto il suo fortissimo senso di appartenenza. Adesso vede la sua squadra soltanto in tv, lui che andava via sempre alla fine del primo tempo nella convinzione che portasse bene, ma nessuno sa se spegne tutto all’intervallo e riaccende trequarti d’ora più tardi.

Enzo D'Orsi

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