Herrera al Mondiale in Cile voleva esserci a tutti i costi e così accettò la proposta della Spagna. “Era avvenuto – ha scritto Mario Sconcerti nel suo libro Storia delle idee del calcio – tutto così in fretta e in modo misterioso che Angelo Moratti nemmeno sapeva se sarebbe ritornato”. Ufficialmente insieme a Pablo Hernández Coronado, ma è facile immaginare chi fosse il vero comandante della spedizione (nonostante anche Coronado sia ricordato in Spagna come un tipo fumantino e con il gusto della polemica), convocò per il Cile ventidue giocatori. Un terzo del Real Madrid, che allora era la squadra di club più forte al mondo e un altro terzo del Barcellona, formazione che lui aveva allenato fino a un paio di stagioni prima. E alla quale era maggiormente legato, anche a livello sentimentale. Le cose non furono semplici neanche per la Spagna, che aveva una situazione e una storia recente molto simile a quella dell’Italia. Sembra che al momento delle convocazioni alcuni giocatori madridisti non risposero all’appello, appunto perché sulla panchina c’era Herrera. Brera scriverà su Leggenda dei Mondiali che Alfredo Di Stéfano lo chiamava “el brujo fanfaron”. Tra i ventidue c’erano quattro naturalizzati, oltre alla “Saeta rubia”, anche i suoi compagni di squadra Ferenc Puskás (ungherese) e José Emilio Santamaría (uruguaiano) e infine Eulogio Martínez (paraguaiano). Il Mago aveva allenato per la prima volta la Spagna nel 1960, per poi riprenderla in mano appunto per il Mondiale del 1962.
“Da allenatore della Nazionale – mi dice Fiora Gandolfi, moglie di Helenio – non era ben visto dai giocatori. H.H. metteva i giocatori a regime alimentare, tutti erano tenuti a stecchetto: una bistecchina, un puré e un po’ di verdura. Impediva a giocatori e dirigenti di gozzovigliare a tavola con vini, superalcolici, cibi pesanti e sigari cubani”.
Le “Furie rosse” – in girone con Brasile, Cecoslovacchia e Messico – uscirono subito dal Mondiale, dopo le prime tre partite. Ma stando a ciò che scrive Franco Rossi nel suo libro “Perda il migliore” quella fu la migliore squadra del torneo. Anche se questa parte del libro sembra più una forzatura che un vero paradosso, vale la pena leggere quanto ha scritto il giornalista: “Quando c’è la partita che decide, quella del “dentro o fuori”, è l’arbitro a deciderla. Spagna-Brasile è la più bella gara di tutto il Mondiale. Herrera insieme a Puskás e Francisco Gento, grandissimi, ma ormai sul viale del tramonto, fa giocare diversi ragazzini. I suoi schemi sono semplici e vengono realizzati a velocità tripla rispetto a quella dei brasiliani: l’arbitro favorisce sfacciatamente i brasiliani: è cileno l’arbitro Bustamante e due giorni prima era stato sorpreso con una ragazza di facili costumi, procuratagli dai dirigenti della Federazione brasiliana: Mozart di Giorgio, Mendonça Falcao, Luis Murgel e Geraldo Starling Soares. La ragazza, fermata dalla polizia, afferma che i dirigenti brasiliani gli hanno dato tremila dollari, che doveva dividere con il signor Bustamante”.
“La Spagna – conclude Rossi – perde all’ultimo secondo di gioco, e abbandona i Mondiali con il plauso dei critici. Ha raccolto meno di quanto meritasse, ma per Helenio Herrera è la consacrazione a livello internazionale”.
Il “Mago” ha raccontato quell’esperienza a Simon Kuper e si trova nel libro di quest’ultimo Calcio e Potere. In particolare il giornalista-scrittore gli chiese del caso Di Stéfano, che allora aveva già giocato con due Nazionali, Argentina e Colombia, senza però disputare mai un minuto ad un Mondiale. “No, era infortunato – racconta HH. E’ vero che la prima volta che ci incontrammo negli uffici della Federazione calcistica spagnola, Di Stefano rifiutò di stringermi la mano. La stampa di Madrid mi attaccava perché ero l’allenatore del Barcellona, e perché avevo convocato quasi interamente l’intera formazione del Barça. Ovviamente negli anni avevo tenuto gli occhi aperti”.
“E avevo raccolto – continua – le persone che mi interessavano. Inoltre, Di Stefano non era contento all’inizio perché a quei tempi erano i giocatori a gestire la squadra. C’era la squadra di Di Stefano, la squadra di Mazzola, la squadra di Sivori, e l’allenatore era quello che portava le sacche. Io cambiai le cose. Dissi: Io sono l’allenatore, quindi comando io. In seguito Di Stefano disse: adesso riesco a capire che il señor Herrera è un grande”.
Fonte: “La battaglia di Santiago – 2 giugno 1962: Cile-Italia 2-0” di Alberto Facchinetti (Urbone Publishing 2012)
Redazione
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