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Chi ha già toccato il cielo non può andare più su

Ci sono uomini, per fortuna, che non vorremmo ci lasciassero mai. Alfredo Di Stefano era uno di questi. Credo che noi, dico noi che poco o molto l’abbiamo conosciuto o che ne abbiamo sentito parlare quando ancora era fresco il suo mito, abbiamo il dovere di raccontare ai ragazzi d’oggi quello che sappiamo di lui. Stava forse festeggiando con la famiglia il suo ottantottesimo compleanno, in un ristorante non lontano dallo stadio Bernabeu di Madrid, quello in cui aveva celebrato i suoi maggiori trionfi, quando un infarto, il secondo, gli ha fermato il cuore. Ai tempi della sua gioventù tutto sarebbe finito lì, ma gli strumenti medici di oggi l’hanno salvato, consentendogli ancora tre giorni di vita. Vita apparente, però. Il suo cuore era stato per 18 minuti inattivo: niente battiti, niente sangue al cervello. Non era possibile augurargli di protrarre a lungo la sua sofferenza. Chi ha visto giocare lui e i grandi campioni che l’hanno seguito (Pelè, Eusebio, Cruyff, Maradona) lo ha giudicato il più grande di tutti.

Di_Stefano

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Era un uomo-gol, soprattutto in gioventù, ma non quello soltanto. Era uno che giocava ovunque, che partendo dalla difesa ispirava il nascere di una nuova manovra offensiva, dribblava e dialogava con i compagni, si portava avanti velocissimo (non per niente era chiamato “saeta rubia”, che vuol dire freccia bionda) per essere in grado lui stesso di concludere a rete. Inimitabile. Non uno che aveva bisogno di compagni che lo servissero a dovere, ma piuttosto uno che faceva muovere attorno a sé tutta la squadra. Le sue squadre sono state il River Plate di Buenos Aires, dov’era nato, poi l’Huracan, il Millonarios in Colombia, infine il Real Madrid, che ne ottenne l’ingaggio dopo un lungo braccio di ferro col Barcellona: il miglior affare della sua storia. In Colombia Di Stefano, rischiando una squalifica internazionale, era andato per soldi; al Real soprattutto per la gloria, resa evidente da otto titoli di Spagna e da cinque Coppe Campioni consecutive. La sesta, quando aveva già 38 anni, gli fu negata dall’Inter di Herrera e dal suo gioco basato su difesa e contropiede veloce. Da quell’1-3 nella finale di Vienna si sentì umiliato. “Questa sera – disse – è finito il calcio”. Invece era finita la sua epoca. Come allenatore, soprattutto per il Real di cui sarebbe diventato vicepresidente onorario, vinse ancora, ma non quanto gli era riuscito da giocatore, fra competizioni per club e quelle delle sue due Nazionali, Argentina e Spagna (per i suoi meriti sportivi aveva avuto la cittadinanza spagnola). Chi ha già toccato il cielo non può andare più su.

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Gino Franchetti

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